Con la metà degli anni Settanta, la ‘cultura del nudo’ è ormai sdoganata nel paese quale elemento vitale e costitutivo l’identità nazionale. Agli italiani il sesso piace e l’offerta a getto continuo di film a contenuto erotico è lì a testimoniarlo. L’enorme scalpore destato da L’ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci, il successo internazionale di Malizia (1973), gli strepitosi incassi di Emmanuelle (1973) e la nutrita schiera di film a lei ispirati ma anche, sul versante d’autore, le scene di sesso ne La grande Abbuffata (1973) di Marco Ferreri, le ‘donnone’ di Fellini in Casanova ‘70, (1970) fino al realismo poetico della pasoliniana «trilogia della vita», ultimo impietoso affresco sulla modernità, ci consegnano l’immagine di un paese in cui le drammatiche tensioni sociali di quegli anni, sembrano sciogliersi davanti al corpo nudo di una donna.
Spiega Brunetta: nel 1975 «si raggiunge il punto di massima erotizzazione diffusa del sistema [cinematografico] e forse il punto di rottura, oltre il quale bisogna effettuare il salto e una specializzazione ulteriore». Così è stato: sulla scorta del successo mondiale ottenuto da Linda Lovelace in Gola profonda (1972), primo film pornografico a ottenere una normale distribuzione e vero e proprio fenomeno culturale dell‘epoca, la pornografia diventa prodotto di massa, e anche in Italia aprono le prime sale a luci rosse mentre uno sparuto gruppo di attrici si sta ‘facendo le ossa’ sui set della nascente commedia sexy prima di traghettare (con motivazioni diverse) all‘hard.
Nel tentativo di soddisfare per intero la domanda erotica del pubblico, si diffonde un ricettacolo di sotto-generi che si pone come testa d’ariete del sistema cinematografico, con il chiaro intento di scioccare i palati del pubblico, in un’escalation di sadica violenza ai limiti dello snuff-movies. E ce n‘è veramente per tutti i gusti: dai «tonaca-movies» d’ambientazione conventuale, popolati da giovani religiose assetate di sesso (Le monache di Sant’Arcangelo, 1973, Confessioni segrete da un convento di clausura, 1972, La monaca mussulmana, 1974), agli «horror erotici» conditi da orge, riti satanici e sacrifici umani (Nuda per Satana;L’ossessa, 1974, Un urlo nelle tenebre, 1975), ai «woman in Prison», capaci di sottoporre le carcerate a ogni genere di sadica violenza (Diario segreto da un carcere femminile, 1973, Prigione di donne, 1974), ai «porno-nazi» (o «eros-svastika»), ambientati nel perimetro dell’olocausto (Lager SS 5 – L’inferno delle donne, 1975, K.Z.9. Lager di sterminio, 1976), fino ai «cannibal-movies», pellicole in cui l’efferata miscela di antropofagia, cannibalismo e atrocità su persone e animali farà guadagnare al filone una valanga di denunce e processi per violenze (infondate) contro gli attori (Cannibal Holocaust 1979, Cannibal Ferox, 1981).
La commedia sexy non si spinge così in là. Solare e un po’ gigiona, non ha alcun interesse ad addentrarsi nelle zone d’ombra del comportamento umano. Calato il sipario su un mondo medioevale agonizzante ai botteghini, con l’avvento di Malizia, le sexy stelline illuminano, ora, un nuovo notturno. Ma se il film samperiano costituisce il modello teorico in cui s’inscrive buona parte della commedia scollacciata a venire, il retroterra culturale su cui alligna il genere ha radici antiche. «A partire dalla metà degli anni sessanta, da quando si assiste alla progressiva dissoluzione del corpo divistico tradizionale e alla sua ricomposizione sotto altre forme, il divo non è più un prodotto privilegiato dello spettacolo cinematografico e televisivo quanto piuttosto la manifestazione più comune della società dello spettacolo che coinvolge indifferentemente qualsiasi attività. “Fu appunto nei primi anni Sessanta che la macchina si ruppe. E nessuno avvertì il giorno e l’ora dell’avvento del crepuscolo. Era semplicemente accaduto che la ragione, con una delle sue astuzie, aveva fatto credere che il mondo non bisognasse più di Dei e semidei, perché il mondo, finalmente adulto, si era tutto sacralizzato, spossessandosi del trascendente» .
Con la metà degli anni Sessanta, dunque, il fenomeno del divismo sembra avere assolto alla sua funzione ‘salvifica’. La società diventa aperta e plurale, le voci si contrappongono e gli dei, in un mondo sconsacrato, cadono sotto il fuoco della problematizzazione e del relativismo. Delle dive, autentiche ‘verità’ rivelate, non sottoponibili, per definizione, a contraddizione, non ce n’è più bisogno. Gli strali del Sessantotto e la nuova morale sessuale, hanno sfaldato vecchi tabù, e ora alle attrici emergenti, scaraventate fuori dall’olimpo, è richiesto ‘molto di più’ rispetto alle sorelle maggiori. Dalla metà degli anni Sessanta, infatti, non c‘è genere cinematografico in cui non si noti un incremento del tasso erotico. Il nudo diventa l’architrave dell’intero sistema su cui poggiano, con diversi pesi, tutti i generi: thriller, gialli, drammatici ma anche il cartone animato e la fantascienza. Allargate le maglie della censura – dal colpo di coda letale, come dimostrano le traversie giudiziarie di Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci, condannato al rogo da un tribunale ordinario – e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975) – e sfaldata una rigida morale perbenista, il cinema crea un’industria dell’erotismo cui affidare la voglia di trasgressione di un pubblico alla continua ricerca di emozioni forti. E se la domanda di sesso produrrà, nell’articolazione interna ai generi, un’offerta sempre più specialistica che va dal genere erotico fino alla pornografia, con i primi anni Settanta si assiste alla nascita di un genere che, al netto delle declinazioni in cui è ritratto, fa del nudo femminile e del voyeurismo-masturbatorio la sua cifra stilistica. Si tratta della «commedia sexy» (o scollacciata che dir si voglia), figlio degenere della più nobile commedia all’italiana, da cui almeno in parte le deriva, e dell’avanspettacolo. Nata dalle ceneri del decamerotico, che dopo alcuni anni d’intenso sfruttamento ha esaurito la linfa, la commedia sexy si propone di raccontare, con linguaggio scatologico, storielle divertenti e piccanti che muovono nella consueta orbita delle corna, tradimenti, triangoli, ecc., sullo sfondo di un’Italia provinciale, spesso piccolo-borghese, che mantiene ancora vivi al suo interno, elementi della tradizione pre-industriale. Scollacciata, pretestuosa e figlia del qualunquismo, la commedia sexy «raccoglie tutte le disfunzioni e gli elementi deteriori dell’Italia post miracolo economico»: politici corrotti, industriali marchettari, prelati concupiscenti, famiglie ipocrite cementate da una morale d’accatto. Sollevata la palandrana che ammanta le forme sociali della tradizione cattolica, la commedia sexy ci ritrova un’umanità viva e vegeta che, dietro le pose compassate del conformismo, si sganascia di risate, tra frizzi, lazzi e ignobiltà d‘ogni sorta. Entrano in crisi le istituzioni sociali con finalità pedagogiche: la famiglia, la scuola, la caserma, fino agli austeri luoghi del conforto psichico e spirituale quali manicomi, ospedali e chiese soccombono, seppellite da una valanga di risate. Che cos’è la famiglia – sembra domandarsi la commedia sexy – se non un covo di serpi in cui, coniugi fedifraghi e figli guardoni si riuniscono ‘ore pasti’ per mettere in scena la vuota ritualità di un’istituzione borghese (L’insegnante viene a casa, 1978)? E cos’altro è il corpo militare se non un coacervo di scavezzacollo renitenti subordinati a frustrati graduati (La dottoressa del distretto militare, 1976)? Se la speculazione filosofica da Platone in poi attribuisce alla politica la nobile responsabilità della Res publica, la commedia sexy la dipinge, invece, come una forma di potere dalla doppia morale, alle cui periferie procombono schiere di proclivi asserviti, amanti e affaristi di quart’ordine (Giovannona Coscialunga disonorata con onore, 1973). «Scherza con i fanti ma lascia stare i santi» – recita un detto della tradizione, compendio di cultura orale e saggezza popolare. L’impenitente commedia scollacciata non ci sta. In un mondo desacralizzato, nulla e nessuno è risparmiato dalla turpitudine elevata a paradigma, e così anche il papa polacco, Karol Wojtyla, oggi in odore di santità, è messo alla berlina, rappresentato nell’intento di scagliare dei sassi contro le guardie svizzere (Qua la mano, 1980).
Cadute le grandi visioni collettive dotate di ‘senso’, le geometrie della socialità così svuotate, perdono consistenza e normatività: dalle ceneri del «collettivo», inteso come corpo sociale e ordine delle cose cui il singolo sente di appartenere in forza di un comune destino, si rigenera un uomo nuovo che nell’abiura di quei valori (ri)fonda il proprio agire. Nasce l’«in-dividuo», inteso come soggetto ‘privato’, dotato di libertà illimitata e specifiche modalità d’azione. Un soggetto mosso dall’immediato (non mediato culturalmente) appagamento degli istinti primari la cui parola data – architrave su cui poggia l’intero sistema fiduciario a fondamento di ogni società – vale quanto carta straccia, buona per dare forma a mocassini intorpiditi dal tempo. La commedia sexy non risparmia nulla e nessuno perché nulla e nessuno può sottrarsi dall’unica vocazione apparente della modernità: sesso e soldi.
E così, contro ogni intellettualismo di sorta, la commedia sexy (antropologicamente fondata) porta direttamente al pubblico quello che il suo pubblico chiede: fremere di desiderio e (non necessariamente) divertirsi. Per oltre un decennio i cast tecnico-artistici della commedia scollacciata, si compongono e ricompongono a mo’ di ‘cubo di Rubrik’, per dar vita a quell’umanità barocca che punta dritta al generoso decolté della stellina del momento. Immortalato sotto la doccia, sbirciato in un rapido cambio di vestiti o spiato attraverso la serratura, poco importa; l’estetica del prodotto stracult vive di eccessi e ridondanze e al netto delle storielle che va raccontando, deve infine mantenere le promesse per cui nasce: mostrare la donna come mamma l’ha fatta.
Con la metà del decennio, insomma, l’Italia è invasa da una pletora di corpi nudi di vecchie e nuove stelline, la cui luce, con diversa ampiezza e intensità, rischiarerà per oltre un decennio il notturno del Belpaese. Ma fuori dagli schermi cinematografici si respira un’altra aria. Ed è quella dei lacrimogeni esplosi dalle forze dell’ordine durante le contestazioni di piazza. Mentre il paese si avvia in una crisi economica di lungo corso, la rabbia del mondo giovanile allarga la protesta coagulandosi in decine di sigle e movimenti, la cosiddetta «sinistra extraparlamentare», divisi su teoria e prassi politica, ma uniti in un’unica finalità: abbattere lo Stato borghese, le sue strutture economiche, politiche e sociali, fino ai suoi confini presidiati dalle forze dell‘ordine.
Accusate di fare il paio con i neofascisti, contro la svolta movimentista e operaista del paese, poliziotti e carabinieri (sarcasticamente definiti «cani da guardia della borghesia») diventano obiettivi delle frange più radicali dei movimenti, determinando, anche tra i militari, un odio esasperato. Ma agli occhi dei movimenti, fascisti sono anche gli apparati dello Stato che si celano dietro alla strage di piazza Fontana, fascista è l’alleanza tra D.C. e M.S.I. (il cosiddetto «fanfascismo»), fascisti sono i regimi autoritari in Cile, Grecia e Spagna, fascisti sono i boiardi di Stato, i padroni, i capitalisti, i capifabbrica, il caporeparto che ogni mattina ti guarda con diffidenza mentre sfili, orgoglioso, con «L’Unità» sotto il braccio. Oltre a un sostantivo, fascista diventa, dunque, un luogo dell’anima, una zona di confine, dove annidare (o stanare) quanti tramano contro la classe operaia. In un radicale sillogismo politico, molto diffuso in quegli anni, se lo Stato non fa tacere il fascista è perché lo Stato stesso è fascista, e dunque è un nemico da abbattere. Anche se questo vuol dire scendere in strada con la P38. Gli scontri di piazza si fanno sempre più duri. La mobilitazione cresce e si allarga. La polizia spara. Ad altezza d’uomo. Scrive Dario Fo: «Non è colpa della polizia, che spara in aria: è colpa degli studenti che volano».
Con il susseguirsi di governi incapaci di soluzioni politiche e un P.C.I. esautorato dai ‘movimenti’ nella sua funzione rappresentativa (bollato di essere un partito d’opposizione integrato al «sistema»), il paese è di fatto consegnato alla difesa militare. Con gli anni che vanno dal 1972 al 1975, per molti osservatori dell’epoca, l’Italia scivola verso lo stato di polizia rischiando una pericolosa deriva autoritaria. Le forze dell’ordine sono impegnate in massicce opere di perlustrazione del territorio, con cui, dietro un’evidente opera di repressione del dilagare del fenomeno criminale, lo Stato ha in mente una precisa strategia mediatica. «Le operazioni in grande stile condotte contro la criminalità comune all’inizio degli anni Settanta, infatti, non si prefiggevano soltanto lo scopo immediato di circoscrivere il fenomeno delinquenziale, ma, più in generale, quello di dimostrare la solidità dello Stato e l’efficienza dei suoi apparati d’ordine che la contestazione minacciava di incrinare».
In questo clima sociale, diviso tra le richieste di sicurezza e l’irrisione verso le forme del potere costituito, nel 1970 esce Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Il film, premio Oscar quale migliore film straniero e Nastro d’argento a un Gian Maria Volonté in stato di grazia, è un grottesco ritratto sul potere nella sua deriva autoritaria e le sue storture psicopatologiche. Il brutale cinismo con cui l’attore interpreta l’ambiguo ispettore di polizia dai modi sbruffoni fino al parossismo, accrescerà in molti la percezione che dietro i grandi misteri della nostra esile democrazia, muovano forme di potere occulto che agiscono fuori degli assetti democratici. Sulla scorta del successo internazionale del film, nascono decine di pellicole che «sia pure in un‘ottica repressiva e reazionaria, [denunciano] la paralisi dello Stato di fronte al dilagare della criminalità e invita[no] il cittadino a farsi giustizia da sé ripristinando la legge del taglione».
Nasce il poliziesco all’italiana, altrimenti definito (in senso spregiativo) «poliziottesco», che con il successivo La polizia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, inaugura ufficialmente il filone. Permeato da una violenza stilistica, il genere vanta un modello base che rimane pressoché inalterato: sullo sfondo delle anonime periferie metropolitane nate all’indomani del boom economico, si snodano i loschi traffici della criminalità con il loro carico di violenzea e morti ammazzati. A cercare di contrastare il fenomeno, nell’impotenza in cui sono costrette le forze dell’ordine, si erge la figura dello sbirro spietato, un cane sciolto che infischiandosene della legge combatte il crimine senza esclusione di colpi. I Serpico all’italiana si riversano così sugli schermi cinematografici, incarnando nell’immaginario collettivo, l’ultimo baluardo al dilagare del crimine, in una sorta di sovrapposizione mediatica alla realtà; saranno in molti, infatti, a identificare nella figura dello sbirro spietato, il profilo risoluto del commissario di polizia Luigi Calabresi. Accusato dai movimenti di essere il responsabile dell’omicidio dell’anarchico Pinelli, fermato in seguito alla strage di piazza Fontana, dopo una lunga e impietosa caccia alle streghe, la mattina del 12 maggio 1972 Calabresi è ucciso sotto casa con due colpi di proiettile alla nuca.
In un clima esasperato dall’escalation impressionante di stragi, attentati terroristici, omicidi e rapine che quotidianamente sfregiano il paese, il poliziottesco si spacca mostrando le sue diverse anime. A un versante che condanna esplicitamente la svolta autoritaria delle forze dell’ordine (La polizia ringrazia; Milano calibro 9, 1972, La polizia sta a guardare; Squadra volante, 1973, Milano odia: la polizia non può sparare, 1974), se ne contrappone uno bollato come revanscista e destrorso che trae linfa dalla questione antieversiva (La polizia ha le mani legate, 1974; La polizia ordina: sparate a vista; La polizia accusa: il servizio segreto uccide,1975; Poliziotti violenti, 1976) mentre, sullo sfondo, le grandi città italiane, sembrano infettate dal morbo della violenza (Roma violenta, 1975; Roma a mano armata; Napoli spara!; Napoli violenta; Genova a mano armata; Torino Violenta, 1976; Napoli si ribella, 1977).
Come scrive Brunetta «l’Italia oleografica, spaghettara e mandolinara, tutta ‘anema e core‘, di tanti film della fine degli anni cinquanta […] non esiste più. E non c’è pace né tra i fichidindia siciliani, né in Aspromonte, né all’ombra della Madonnina milanese, né alle pendici del Vesuvio». Finchè un giorno, stanco di assistere inerme all’orgia di violenza Il cittadino si ribella: pistola in mano e colpo in canna, scende in strada «il poliziotto che è in ognuno di noi».
Ma in quel grande calderone che furono i Settanta, non ribollirono solo le grandi utopie di massa e l’uso diffuso della violenza. Altre utopie, ancora più insidiose, prendevano corpo fra i giovani. Il 1973 è l’anno in cui si registra la prima vittima di eroina. Nell’incessante ricerca di una supposta ‘libertà totale’, una parte del mondo giovanile non accetta di comprimersi entro le maglie del sistema sociale che pur allentate dalle riforme sociali, c’è e opera: hashish, marijuana, LSD ma anche cocaina ed eroina, diventano il grimaldello con cui molti cercano di farsi strada nel mondo reale semplicemente, deformandolo. All’azione culturale e politica che avrebbe decretato con la rivoluzione – questa la convinzione dei più – la fine del sistema capitalistico e la conseguente nascita di una società senza classi, è affiancata l’azione psicotropa che le droghe, da allora diffusissime, sanno produrre. Sulle note di Luglio, Agosto, Settembre (nero) degli Area, un’intera generazione sperimenta ‘nuovi mondi possibili’ in quell’inossidabile connubio che per tutto il decennio sarà il luogo liturgico della protesta: la politica e la musica. La stagione dei primi grandi concerti all’aperto è l’occasione per sperimentare in luoghi ‘protetti’ le possibilità esoteriche di quel ‘nuovo mondo’, trasformandosi in veri e propri happening esistenziali in cui politica, filosofie orientali, sesso e droga diventano i fonemi delle nuove (contro)culture giovanili. Come spiega Bambi Fossati, allora leader del gruppo progressive dei Garybaldi, «allora si fumavano spinelli, cosa normalissima, non è mai morto nessuno. Poi è arrivata la droga pesante […] E‘ stato come un cavallo di Troia. Ricordo che non costava niente, la offrivano come un dono […]. Noi, ignoranti, ci siamo cascati […] veniva quasi regalata invece sapevamo quanto costasse. Non era più uno sballo, era andare al camposanto. Questo ha rovinato tutto» .
Con l’eroina dunque si giunge al punto di non ritorno. Una dose, un laccio emostatico e la siringa spezzano definitivamente le possibilità di ogni ‘proposta’ e sfaldano pericolosamente le maglie della socialità attorno al drogato, fornendo così la rappresentazione più insostenibile di un mondo (o almeno una sua parte), che sembra cedere al ‘male di vivere’. Dai «non-luoghi» della prima modernizzazione, con in testa le periferie anonime e degradate delle grandi città nate con la speculazione edilizia degli anni Sessanta, riversi a terra, i corpi privi di vita di quest’umanità lacerata, sono il segnale che parte di quella nuova società, semplicemente non ce la fa. Fuori dai grandi eventi della storia che per tutto il decennio vedrà riempire le piazze di ragazzi uniti sotto la comune bandiera dell’utopia rivoluzionaria, quest’altra umanità, più sensibile e sfortunata, abdica alla vita e ritorna alla terra senza averne compreso il senso.
Copyright © Stefano Loparco. Tutti i diritti riservati. Tratto dal libro Il Corpo dei Settanta – il corpo, l’immagine e la maschera di Edwige Fenech (Ed. Il Foglio)