Sul set sventola bandiera nera
Un’odissea. Una tra le produzione più allucinanti che siano mai state realizzate in Italia e i cui continui rimaneggiamenti della sceneggiatura e l’assecondarsi di una mezza dozzina di registi rappresenta solo la punta di un iceberg al cui apice svetta la bandiera nera di Klaus Kinski. Un passo indietro.
Quando nel 1985 Caminito rileva il progetto da Carlo Alberto Alfieri, il soggetto di Nosferatu a Venezia è già scritto e la regia avrebbe dovuto essere affidata a Maurizio Lucidi, un onesto mestierante con buoni trascorsi nel cinema di genere. Ma all’appropinquarsi del progetto, pochi mesi dopo, si pensa che, in effetti, il Nosferatu italiano avrebbe dovuto essere più ambizioso. Il cast prescelto è di livello – oltre a Kinski annovera Christopher Plummer, Donald Pleasence, Barbara De Rossi e Yorgo Voyagis – e Caminito, nel frattempo, si è convinto a rimpinguare il budget. A quel punto è mandato a chiamare Pasquale Squitieri e Lucidi (che nella circostanza si è limitato a girare alcune sequenze del carnevale, nel febbraio del 1986) è congedato. Grazie al nuovo regista la sceneggiatura è rimpolpata, in linea con le accresciute aspettative del film. Troppo. ‘Non ci sono abbastanza soldi per realizzarlo!’ – scuote la testa il produttore dopo aver dato un’occhiata al copione. Troppo barocco. Il rischio è che il denaro finisca durante le riprese – viene spiegato al cineasta che però, prima ancora di girare, è in altre faccende affaccendato. Ha litigato con Kinski, di brutto. I due non si piacciono, neanche un po’. Caminito lo capisce presto, come capisce che se c’è una persona del tutto refrattaria alle contumelie del polacco, ebbene, quella persona è proprio Pasquale Squitieri, che di abbassare la testa non ci pensa proprio. La scelta è inevitabile: pagato il compenso pattuito, anche il contratto di Squitieri è rescisso. Occorre un regista, sì di mestiere, ma che sappia gestire il progetto con un occhio fisso al budget. Mario Caiano sembra l’uomo giusto. Vanta una carriera ventennale tra cinema, sceneggiati Rai e documentari. Inoltre ha già lavorato con Kinski avendolo diretto in un piccolo western del 1973 intitolato Il mio nome è Shangai Joe. Caiano accetta l’incarico: il film è suo. E così nell’agosto del 1986 le riprese hanno finalmente inizio. Ma le cose tra Caiano e Kinski si mettono subito di traverso. Ricorda il regista:
«La storia di Nosferatu a Venezia è stata raccontata in tanti modi da chi non era presente sul set. Da qualche parte ho anche letto di specchietti e spazzole che Kinski mi avrebbe tirato contro! E allora mi sembra doveroso ristabilire la verità. Tutto nacque da una mia precedente collaborazione con Augusto Caminito. Il produttore aveva inviato in Africa Mino Guerrini a dirigere un film d’avventure [Le miniere del Kilimangiaro n.d.a.] ma il povero Mino non riuscì a girare le sequenze d’azione. Fu allora che Caminito mi chiese di portare a termine il lavoro. Cosa che feci a Tor Caldara, sul litorale romano, e in appena dieci giorni. Augusto rimase comprensibilmente soddisfatto del mio lavoro al punto che promise di farmi dirigere un suo prossimo film. Si trattava proprio di Nosferatu a Venezia per il quale firmai un regolare contratto per la regia. Studiata la sceneggiatura, fatti i sopralluoghi e scelto il cast secondario, si è finalmente giunti al primo giorno di riprese. Dopo la pausa, Klaus si presentò sul set regolarmente e, come previsto, lavorammo a un suo primo piano. Ma allo stop non si fermò continuando a fare le sue consuete ‘facce’. Rimasi incredulo. Nella circostanza mi si avvicinò Caminito dicendomi che Klaus non voleva essere interrotto perché – a suo dire – gli potevano venire delle buone espressioni. Intanto lo avevo sentito chiedere chi fossi io e quale fosse il motivo della mia presenza sul set. Nonostante lo sbigottimento, l’indomani mi presentai regolarmente a lavoro. Senza neppure salutarmi, Kinski e Caminito si rinchiusero nella roulotte per rimanerci tutta la mattina. Solo a quel punto capii lo stato delle cose: Caminito aveva promesso a Klaus, oltre a una Ferrari, di fargli dirigere il film. È chiaro che il peso dell’attore era maggiore del mio. Non mi rimase che salire in auto e tornare a casa».
Una brutta storia, non c’è che dire, e che anche nella versione di Caminito non sposta i termini della questione:
«No, non avevo promesso a Klaus la regia di Nosferatu – ricorda il produttore –; la Ferrari sì, era prevista dal contratto e scalata dal compenso complessivo dell’attore. Quel giorno arrivai sul set e fu Alfieri a dirmi dell’abbandono di Caiano. Klaus e Mario – mi disse – avevano avuto un violento alterco durante le riprese dei gitani a Tor Caldara. Ero infuriato. Quel film mi costava milioni di dollari, denaro che vedevo andare in fumo a causa di Kinski. Allora mi precipitai verso la roulotte di Klaus e gli ringhiai: ‘Klaus, esci!’. Pochi istanti dopo vidi aprirsi la porta della roulotte e sbucare fuori la sua faccia allampanata: ‘Adesso il film lo fai tu!’ – mi disse gongolante, ancora vestito da Nosferatu. Non riuscii a trattenere le risate. Subito la rabbia svanì e decisi di assecondarlo. La verità è che ero terrorizzato dall’idea di essere io a dirigere il film, ma troppe cose nella mia vita, all’epoca, non giravano nel verso giusto e perciò ero fermamente convinto di portare a termine la pellicola ad ogni costo…».
La querelle tra il regista e il produttore avrà un inevitabile strascico giudiziario (risoltosi a favore di Caminito) ma il punto è un altro: ai giorni di Nosferatu a Venezia, Kinski è letteralmente indomabile, nulla a che vedere con l’attore – pur difficile – che vent’anni prima calcava i set italiani. Nell’ordine: non accetta di assumere le sembianze del redivivo herzoghiano, stravolge la sceneggiatura, offende la troupe, boicotta le riprese e importuna sessualmente le attrici. Totalmente disinteressato al copione, Kinski riesce – questo sì – nell’intento di vampirizzare il film: stabilisce orari e luoghi di ripresa, crea e distrugge sequenze, si fa portatore di un piano di lavorazione alternativo che impone alla produzione, fa allontanare un’attrice professionista, ritenendola poco sensuale, e la sostituisce con l’allora compagna di Yorgo Voyagis. Insomma, fa quello che comunemente fa un regista. Caminito lascia fare, Alfieri è sempre più cupo. Non è raro, la sera, vederlo nella hall del suo albergo veneziano, solo e pensieroso. E non è difficile intuirne lo scorno: il film, di fatto, lo sta facendo Kinski, un uomo in balia di se stesso. E che tiene in pugno la troupe. Alfieri poi, da un iniziale rapporto di stima, è diventato il bersaglio preferito di Kinski. È lui a fibrillare durante gli anatemi del polacco. Spiega Caminito:
«La presenza di Carlo Alberto Alfieri è stata fondamentale per la realizzazione dei film con Klaus. Era lui a interpretare il ruolo del capro espiatorio (Klaus aveva sempre bisogno di un capro espiatorio). Il mio era un ruolo più defilato. Non so se ce l’avrei fatta da solo!».
E se il rapporto con le maestranze è teso sin dal primo ciak – al punto che l’intera troupe ha incrociato le braccia per un giorno intero in segno di protesta contro l’ ‘insolenza’ kinskiana –, mantenere alto il tono del cast si rivela un’impresa disperata. Un solo aneddoto è sufficiente per capire le condizioni insostenibili in cui il film è stato girato. A raccontarlo è Luciano Muratori, microfonista di Nosferatu a Venezia e Paganini:
«Quel giorno dovevamo girare la sequenza in cui un’attrice veniva vampirizzata da Nosferatu. Kinski avrebbe dovuto chinarsi sul collo della ragazza – che gli giaceva accanto completamente nuda – e simulare il morso. Ma al ciak, mentre la testa si avvicinava al collo dell’attrice, Kinski le infilò le dita nella vagina. Gli altri della troupe non se ne accorsero perché il gesto era coperto dal suo corpo di spalle, ma essendo io posizionato col microfono sul fianco, vidi tutto. Sentii davvero l’impulso di prendere Kinski e scaraventarlo a terra. Tra l’altro era un’inquadratura tagliata alla vita e dunque quel comportamento deplorevole – che non sarebbe finito sulla pellicola – non aveva davvero nessuna giustificazione. Se non la più squallida. Finita la scena, l’attrice si alzò e senza dire nulla se ne andò piangendo nel camerino».
Com’è andata a finire? È finita che, con la produzione alla propria mercé («ma senza il nome di Kinski il film non era vendibile» – ricorda Caminito), Kinski è riuscito nell’intento di far implodere l’intero progetto, che, infatti, uscirà dalle forbici dei tre montatori avvicendatisi nei due anni di gestazione – come ha ammesso il produttore – senza essere mai stato finito. E Kinski? Con la mente è altrove. A chi nell’ottobre del 1986 gli chiede conto del personaggio che si appresta a interpretare, l’attore risponde trafelato: «Non ho tempo, sto lavorando. E poi non amo parlare dei film che sto facendo, semmai di quelli che farò; e presto, spero, sarò il regista di me stesso in un film su Paganini».
Nella stessa circostanza l’ignara attrice oggetto delle insidie ‘vampiresche’, rassicura l’intervistatore: «Ci sarà erotismo ma non in senso speculativo, altrimenti non avrei accettato di farne parte».
Quando l’8 settembre 1988, due anni dopo il primo ciak, Nosferatu a Venezia esce nelle sale italiane – grazie anche alla collaborazione di Luigi Cozzi –, Caminito è in procinto di partire per l’Africa a girare I Grandi cacciatori, terzo dei film previsti dall’accordo con Kinski. Ancora non lo sa ma quel set segnerà la fine del loro rapporto professionale.
Sulle calli veneziane
C’è una storia che non è mai stata raccontata. È una piccola vicenda che proprio a Venezia vede intrecciarsi le vite dei due amici-nemici di sempre: Klaus Kinski e il suo alter ego registico, colui che, al netto di tante prove convincenti, passerà alla storia del cinema per aver fatto issare su una montagna amazzonica un battello di trecentoventi tonnellate in Fitzcarraldo (1982): Werner Herzog. Non tutti sanno che il regista è da sempre un infaticabile camminatore. A piedi ha attraversato comuni e nazioni, ha solcato colline e montagne, ha marciato in tutti i tipi di strade, fondi rurali, boschivi e sterrati. Nell’inverno del 1974 venuto a conoscenza che una sua anziana amica – il critico cinematografico Lotte Eisner – versava in gravi condizioni di salute, decise di andarla a trovare, a Parigi, «nell’assoluta fiducia che lei sarebbe rimasta in vita se io fossi arrivato a piedi». Nell’occasione aveva portato con sé «una giacca, una bussola, una sacca con dentro lo stretto necessario». È in quella stessa mise che la troupe di Nosferatu a Venezia se lo vede arrivare un giorno sul set. Ma per la circostanza nessun fioretto, era solo ‘venuto a salutare Klaus’, o almeno così aveva detto a uno stupefatto Caminito e a un compiaciuto Kinski. L’incontro è durato un paio d’ore. Quattro chiacchiere, come si fa tra amici. Poi, consumata la cena, Werner aveva salutato:
«Grazie a tutti, ora vado» – dice il regista acciuffando il fardello.
«Ma Werner è tardi… rimani con noi, partirai domani…» – risponde Caminito
«Grazie Augusto ma per me non è un problema… vado…»
Herzog non scherzava, affatto. Era realmente intenzionato a tornarsene a Monaco a piedi nel cuore della notte. Ma nella circostanza a imporsi è Caminito – l’unico realmente preoccupato per la situazione – che, non senza difficoltà, era riuscito a persuadere Herzog a pernottare in un albergo messogli a disposizione dalla produzione, il lussuoso Bauer Hotel di Venezia, lo stesso in cui era domiciliato Kinski durante le riprese del film. Ma Herzog è Herzog e starsene a dormire in una camera d’albergo come un turista qualsiasi non fa per lui. E a farne le spese sarà proprio Caminito che l’indomani mattina si vedrà precipitare in stanza da letto un furibondo Kinski le cui uniche parole – così almeno gli è parso di capire nel dormiveglia – sono state:
«Dov’è quel ladro?… dov’è Herzog?… mutande… lo picchio!»
Ci vorrà non poca pazienza per riportare alla calma Kinski e ricostruire l’accaduto: quella stessa notte Herzog aveva abbandonato l’albergo non prima di aver sottratto a Kinski parte della sua biancheria intima. E perciò Caminito ancora oggi non ha dubbi:
Copyright © Stefano Loparco. Tutti i diritti riservati. Tratto dal libro Klaus Kinski – Del Paganini e dei capricci (Ed. Il Foglio).