Il nulla che va raccontato: La grande bellezza

L’apparato umano di Jep Gambardella. Romanzo di formazione di un giovane in estatica contemplazione della sua eclissi amorosa, quando gli elementi del creato convergono allo Zenit, quando tutto è come appare: una notte stellata, il mare silente, le onde che s’infrangono sui faraglioni e al centro della scena, lei, bellezza acerba che la parola inciampa. «Adesso voglio farti vedere una cosa…. » – dice all’innamorato cominciando a spogliarsi. Jep è paralizzato («Io non mi muovevo. Non avrei potuto muovermi»). Davanti a quei piccoli seni, il momento preciso che separa il vivere dall’aver vissuto, la vertigine dall’abisso, una nuova teoria della conoscenza e del sé.

E’ la sequenza finale de La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, l’explanandum di una pellicola che per oltre due ore mette in scena il cupio dissolvi di un’umanità lacerata sullo sfondo di una Roma magniloquente e metafisica, una cornice intarsiata in foglia d’oro al cui centro brulicano vite senza direzione e senso, come goccioline raggrumate sulla tela di un Pollock: intellettuali e starlette, aristocratiche e spogliarelliste, perdigiorno e alti prelati, un’intera sociologia ritratta nel suo agitarsi compulsivo che ritrova la sua ragione d’essere nel rito carnevalesco del ‘trenino’.

E Jep? Cosa ne è stato dell’ultimo Gambardella? Non è meglio degli altri. Cinico e disincantato, sopravvive al vuoto interiore al prezzo di un’amara ironia, ultimo baluardo al male di vivere. Un’esistenza al risparmio, la sua, sempre al centro della scena, mai della vita: è benestante e annoiato, intelligente ma scostante (L’apparato umano, vincitore del premio Bancarella, è il suo unico libro), non invidia, non è invidiato. Per vivere fa il giornalista, così. Piacente, raffinato, sensibile, Jep trascorre le giornate immerso nella mondanità ma nel buio sociale lo si vede riconquistare il silenzio, andandosene per le vie di una Roma deserta, segno di un fondo misantropico forse dimenticato. Jep è un sopravvissuto. E sa di esserlo. Orfano di quei seni ma ancora vincolato a quel patto di bellezza mai disciolto, si è immolato sull’altare dei mediocri («Io sono stato deludente»). Non ha perso, né vinto. Si è ritirato. Nulla è possibile se la meta è irraggiungibile. Così la bellezza non vivifica il mondo sociale – lascia intendere la pellicola di Sorrentino –, sopravvive nei fasti architettonici di una Caput mundi che nessuno dei protagonisti de La grande bellezza sembra apprezzare.

Già, i protagonisti. Una galleria di nuovi mostri del III millennio, oltre il pudore e la vergogna. ‘Cafonal’ alla Mutande pazze (1992) cresciuti in quel cono d’ombra, reale e illusorio, che va da Andy Warhol a Roberto D’Agostino. Votati al culto della bellezza (chirurgica) e al divertissement, invece sopraffatti dall’horror vacui, sempre bisognosi di un ‘rinforzo’, una spalla amica, una parola buona. Che non c’è. E’ il caso di Jep che durante una festa s’incarica di demolire l’auto rappresentazione dell’amica, sedicente donna di specchiata moralità e madre affettuosa, come fin lì si era professata («Stefa’, madre e donna, hai una vita devastata come tutti noi. Allora invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto. Siamo tutti sull’orlo della disperazione. Non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un po’ in giro. O no?»). La donna si trincera in un silenzio carico di vergogna. Reputazione compromessa? Amicizia troncata? Niente affatto. Jep e Stefania continueranno a frequentare la stessa combriccola ‘fin che trenino non li separi’. Nulla si crea e nulla si distrugge al tempo de La grande bellezza. Le biografie non creano valore, densità etica. Contano le rappresentazioni del sé e anche quella di Jep è solo una maschera, più incline all’intrattenimento – è pur sempre un istrione – che all’invettiva morale. Manca ne La grande bellezza la drammaturgia che permea l’opera di Antonioni. Con Sorrentino si oltrepassa la dimensione del tragico per librarsi nel più compiuto non-sense. I protagonisti soffrono non la mancanza di legami significativi – non è l’incomunicabilità la natura del male – ma l’implosione del senso quale precondizione dell’identità. Ed eccoli i protagonisti di questo paesaggio ‘insensato’: Dadina la nana (Giovanna Vignola), caporedattrice del giornale su cui scrive Gambardella, Romano (Carlo Verdone), sceneggiatore teatrale romantico e idealista, Stefania (Galatea Ranzi), l’amica radical-chic, Viola (Pamela Villoresi), vedova facoltosa e madre di un ragazzo schizofrenico, Orietta (Isabella Ferrari), la fiamma destinata presto a spegnersi, Lello (Carlo Buccirosso), industriale dongiovanni fintamente innamorato della moglie Trumeau (Iaia Forte), paciosa e dedita al pettegolezzo e Ramona (un’intensa Sabrina Ferilli), spogliarellista avanti con gli anni dallo sguardo arreso ma sincero.

Ma allora, di cosa parla La grande bellezza? Del nulla o di nulla che apparentemente meriti d’essere raccontato: si chiacchiera, si canta, si balla, si fa sesso: si sopravvive. Fino al giorno dopo, giorno in cui si chiacchiererà, si canterà, si ballerà, si farà sesso. Qualcuno morirà.

Tutto qui? Si. E’ poco, si dirà, e qualcuno, infatti, lo ha detto. E a ragione. Sulla scia del capolavoro felliniano La dolce vita (1960), Sorrentino indaga un fenomeno – la mancanza di senso in seno alla contemporaneità – frequentato da artisti e intellettuali dall’alba del Novecento, e lo fa – considerati i limiti di un’opera d’intrattenimento – limitandosi alla rappresentazione. Ma è sul piano eminentemente cinematografico che l’opera di Sorrentino convince. La costruzione delle inquadrature, i movimenti di macchina, la consistenza interpretativa, fanno di La grande bellezza un caso a sé nella produzione autoctona degli ultimi venti anni. Una pellicola che abbandona i cliché della commedia all’italiana, rifugge gli stereotipi vetero-realisti di certo cinema giovanilistico e affonda in una tradizione – quella della commedia umana fondata da Sorrentino – che è già scuola. Un cinema che accetta la complessità amalgamando piani di lettura e concatenazioni di sequenze, senza perdersi nei dettagli ma esaltandoli; un cinema formalmente inespugnabile fatto di campi lunghi, carrelli, piani sequenza e primi piani, virtuosamente alternati in una sincope dal lascito ipnotico. Come ipnotico è l’incipit della pellicola girato sul colle del Gianicolo, a Roma. Dal colpo del cannone salutato dai rintocchi di campane alla rapida carrellata di volti e monumenti (‘Roma o morte’ – è la sinistra profezia iscritta alla base del busto di Garibaldi), l’interpolazione tra la visione multioculare di un coro dentro la Fontana dell’Acqua Paola – che esegue la straniante I Lie di David Lang – e la morte di un turista sopraffatto dall’abbacinante bellezza del panorama capitolino, fino alla chiusa che ‘affonda’ nelle acque della fontana per poi abbracciare, in una visione d’insieme, la terrazza del Gianicolo; a terra il corpo senza vita del turista, sullo sfondo i rilievi capitolini bruciati dal sole mentre in aria risuonano le voci dolenti del coro. Anche così potrebbe bastare: il talento di Sorrentino è soverchiante.

Ma servirà indagare la costruzione formale dell’opera – quella rigorosa geometria fatta di spazi pieni e vuoti, punti prospettici e vie di fuga, luci e ombre – per raccontare La grande bellezza? No. La pellicola di Sorrentino trascende la tecnicalità per regalare allo spettatore – nel vagare senza meta di Jep – alcuni momenti di grande fascinazione: i profili dei monumenti sottratti al buio, il bacio appassionato dei giovani innamorati, l’andirivieni divertito delle religiose, lo sguardo assente della starlette a bordo di una Limousine, fino all’incontro casuale – carico di stupore infantile e rassegnazione – di Jep con Fanny Ardant, icona di un tempo perduto.

Alla percezione della propria finitezza e lo spettro della morte – sarà un’umile suora, ‘la santa’, a dare una plausibile risposta al bisogno di sacro che via via sembra affiorare nella vita del giornalista –, Jep contrappone illusoriamente il suo vuoto armamentario fatto di feste e ‘trenini’ che ‘non vanno da nessuna parte’. E non potrebbe essere altrimenti. Jep è rimasto sempre lì, in quel luogo della memoria in cui si è cristallizzata l’immagine suprema dell’amore giovanile: «Su un isola, d’estate. Io avevo diciotto anni, lei venti. Al faro di notte. Io mi avvicinai per baciarla, lei si girò dall’altra parte. Rimasi deluso. Poi lei tornò a guardarmi. Mi sfiorò le labbra. Aveva l’odore dei fiori. Io non mi muovevo. Non avrei potuto muovermi. Poi lei fece un passo indietro e mi disse… fece un passo indietro e mi disse: ‘adesso voglio farti vedere una cosa…‘».

Ecco il momento preciso che separa il vivere dall’aver vissuto, la vertigine dall’abisso, una nuova teoria della conoscenza e del sé. Senza bellezza ogni promessa di felicità è disattesa. E al crepuscolo della vita, Jep trova la forza di spezzare il disincanto. E il suo nuovo romanzo può finalmente avere inizio: «E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla, bla, bla, bla…».

 

2 pensieri su “Il nulla che va raccontato: La grande bellezza

  1. Incantato dal titolo avevo comprato a Roma il DVD di questo film. Nella calma dopo il mio ritorno a casa ho iniziato a vederlo con un certo interesse che si è spento dopo una ventina di minuti. Mi ha ricordato alcuni aspetti di Antonioni per quanto riguarda la noia. Ho tentato di andare avanti ma non ce l’ho fatta. Ho interrotto la proiezione verso la metà a avanzata del film. Non so cosa mi sia preso, ma un grave senso di disagio ha vinto su tutti i buoni propositi che si fanno quando ci si trova di fronte a un film premiato o premiando (magari gli daranno l’ Oscar) del quale si è capito poco o nulla. Ho regalato il DVD a un amico che voleva vederlo e non so come sia andata a finire. Ho notato che qui è riportata la fine del film e mi sono forzato di vederla. Era meglio di no. Poteva rimanere qualche illusione che non avevo capito. Che il cinema non è più quello dei miei tempi. Che il linguaggio è diverso e così la tecnica di ripresa. Ma non è bastato. Non avrei mai potuto immaginare un finale diverso da quello che ho visto. Impastato di retorica fatua, scandita con voce da lettura di Dante Alighieri, con inutili effetti ottici sulla testa e sul volto di Servillo, per sentirgli pronunciare il niente. Non si può rifare oggi Antonioni approfittando dello scontento umano generato da una sorta di disperazione del futuro e dell’incomprensibilità del presente. A che servono quei seni nudi, quelle tinte fosche, quelle considerazioni senza logica ma solo con l’effetto di disorientare ancor più lo spettatore ? Non discuto la bravura degli attori, quella della regia, dei costumi e degli altri componenti. Il film non esiste, non comunica e questo basta per non farmelo piacere. Peccato. Il cinema italiano è ancora sotto la coltre di notte e nebbia iniziata da diversi anni. Ci sarà un futuro migliore. Tutto nella vita è ciclico. Speriamo che arrivi presto.
    Giampaolo Lomi

  2. Questo film non comunica niente? Suggerirei l’astensione dal giudizio visto che non ha neanche finito di guardarlo. Lei non capisce il film, non le piace e ci sono tanti film meno noiosi e più coinvolgenti che sicuramente farebbero più al caso suo, Ma questo non significa che il film non comunica niente, o che vengono fatte considerazioni senza logica..questo è perché non riesce a capirne il significato, ma non vuol dire che qualche altro essere umano non sia riuscito a trovare invece un significato molto profondo in quelle scene e in quelle parole.

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