Scrive Walter Veltroni: – «Non saremmo ciò che siamo senza Caravaggio o Stravinskij, senza Proust o Fellini, senza Gershwin o Brunelleschi. Senza di loro il paesaggio del mondo, la grammatica delle nostre emozioni, i percorsi della nostra fantasia sarebbero diversi. La consapevolezza di noi stessi sarebbe diversa». Altrettanto diversa sarebbe – mi pare –, se non avessimo potuto cogliere i frutti ‘minori’ di quella vasta produzione popolare che, in egual misura, ha saputo sedimentarsi entro la memoria collettiva del paese, contribuendo a plasmarne l’identità. Accanto ai luoghi istituzionali della cultura ’alta’ prosperano, infatti, altri archetipi, prodotto della (sub)cultura popolare, nati per il consumo e la diffusione ma che hanno saputo emanciparsi dalla dimensione funzionale entro cui sono stati concepiti. Sono oggetti straordinari e proprio per questo capaci, nel tempo, di abdicare alla naturale destinazione d’uso, per fare il loro ingresso in una dimensione altra, parallela a quella reale; è il mondo delle «forme universali», prodotto e patrimonio della memoria collettiva, popolato da una particolare classe di oggetti che vive e si nutre del linguaggio del simbolo e del mito e sui quali, ognuno di noi, mappa la geografia esistenziale, la propria «grammatica delle emozioni»: la Fiat 500, la moka Bialetti, la Linea di Osvaldo Cavandoli, ma anche la sigla del Carosello, la pipa di Pertini e l’urlo di Tardelli ai mondiali di calcio del 1982, sono solo alcune forme universali che hanno attraversato i decenni, mantenendo intatta la forza del loro mito. Così è stato per il corpo di Edwige Fenech.
Bella di una bellezza inesplicabile e sogno proibito di intere generazioni d’italiani, Edwige è stata uno dei più potenti oggetti erotici che il mondo della celluloide abbia prodotto. Le ragioni mi pare possano essere qui semplicemente elencate: una fisicità debordante, una mimica fortemente allusiva e la consapevolezza di possedere un corpo erotico fecero di lei, almeno da Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972), una delle icone della allora nascente commedia sexy dei primi anni Settanta. Poche inquadrature, come la ripresa al ralenti di lei giovanissima che corre seminuda nei prati, o la scena della visita medica in cui rimane a seno nudo davanti agli attoniti Renato Malavasi e Umberto D’Orsi, e in quel momento debutta in modo prepotente l’icona Edwige Fenech, sul cui corpo si confronteranno i pensieri inconfessabili d’intere generazioni di connazionali. Sarà ancora Veltroni, ventidue anni dopo, a rendere esplicito ciò che allora non poteva essere detto, scrivendo coraggiosamente «lei è una intensa Edwige Fenech che dà il volto a ‘Quel gran pezzo dell’Ubalda‘, un personaggio alla Truffault. I cinema furono affollati da un pubblico avido di emozioni minute, severo ma capace di cogliere la novità di costume rappresentata da quel film sincero e irriverente. Erano gli anni della svolta a destra, del governo Andreotti-Malagodi e dunque la mitica Ubalda ha anche aiutato a sconfiggere risorgenti integralismi bacchettoni e a dislocare verso equilibri più avanzati il comune senso del pudo-re» . E così l’Ubalda e le eroine che da lì in poi l’affiancheranno, hanno contribuito (non sole, ma certamente anche loro) a ridefinire i parametri di un nuovo senso del pudore, fornendo un punto d’attracco a quanti cominciarono allora il pruriginoso viaggio alla scoperta del ‘pianeta corpo’.
Gli anni che vanno da Top sensation (1969) a La moglie in vacanza… l’amante in città (1980), attraverso le funamboliche peripezie di apprendisti bombaroli in Grazie… nonna (1975), vedranno, infatti, schiere d’italiani in fila davanti ai botteghini dei cinema in cui è proiettato il nuovo film ‘con la Fenech’. E poco importa se lì si narrasse la storia di un’ingenua poliziotta, un’avvenente dottoressa o un austero pretore. Tutti erano lì per ammirare, con l’audacia e il candore delle trasgressioni infantili, quei pochi istanti in cui, caduto a terra il reggiseno, Edwige avrebbe mostrato le forme taumaturgiche di quel corpo meraviglioso. Tutto questo accadeva nella rassicurante penombra di un cinema; fuori, le cronache del tempo ci restituiscono l’immagine di un’altra Italia:
1969 – Strage di Piazza Fontana. A Milano, nei saloni della Banca Nazionale dell’Agricoltura, lo scoppio di una bomba provoca la morte di sedici persone e il ferimento di altre novanta;
1970 – Negli stabilimenti Sit-Siemens di Milano, compare un volantino con la stella a cinque punte e la sigla BR – Brigate Rosse;
1972 – Omicidio del commissario Luigi Calabresi, accusato dagli ambienti extraparlamentari dell’assassinio dell’anarchico Pinelli nelle primissime fasi dell’indagine sulla strage di piazza Fontana;
1974 – Strage di Brescia. Durante un comizio sindacale, una bomba neofascista provoca la morte di otto persone e il ferimento di oltre ottan-ta. Altre sette persone moriranno due mesi dopo nell’esplosione di una bomba sul treno Italicus;
1976 – Con l’assassinio del Procuratore Capo di Genova, Francesco Coco, e la sua scorta, si registrano le prime vittime del terrorismo rosso;
1978 – Mentre si sta recando alla Camera dei Deputati, dove si tiene la discussione che precede il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti, l’onorevole Aldo Moro è rapito dalle Brigate Rosse e la sua scorta ster-minata. Il corpo dello statista sarà ritrovato cinquantacinque giorni do-po, crivellato da una scarica di proiettili, all’interno di una Renault 4, nel cuore di Roma;
1980 – Strage di Bologna. Una bomba nascosta nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria esplode provocando ottantacinque morti e ol-tre duecento feriti: è la più impressionante strage mai avvenuta nell’Italia repubblicana.
E così, in quegli anni così liberi e irriverenti in cui nascevano le prime radio libere e l’emittenza televisiva privata, la controcultura e i grandi raduni rock, negli stessi anni in cui parole quali «assemblea», «sciopero», «contestazione», «lotta di classe» (in un rapido e manchevole excursus crono-semantico), risuonavano lapidarie come cazzotti nella bocca dello stomaco, in quegli stessi anni in cui, nel nome di un agognato socialismo reale o di un supposto ritorno all’ordine, «ucciderne uno per educarne 100» e «uccidere un carabiniere non è reato», forze dell’ordine e magistrati, giornalisti e uomini politici, vengono indistintamente combattuti e abbattuti, sotto i colpi di una lotta armata a matrici rossonere, che ambisce a ridisegnare gli spazi della geografia politica a suon di morti ammazzati e slogan criminal-pedagoghi.
Questa l’immagine sbiadita che ci consegnano le cronache dell’epoca. Questa la faticosa marcia di costruzione di un’Italia che – oggi come allora –, stenta a ritrovare nuovi equilibri socio-politici nella frammentazione in cui il postmoderno l’ha costretta. Questi – oggi come allora –, gli interstizi su cui poggia mollemente il corpo di Edwige Fenech. Strada impervia quella che ci accingiamo a intraprendere dalle pagine di questo libro, irta di rischi personali («Il re è nudo!» – grida il bambino innocente alla folla obnubilata) e di metodo (grave errore confondere la passione con l’oggettività), ma con una tesi dichiarata: Edwige Fenech, l’icona nuda, è stata la prima maschera erotica del cinema italiano. Icona popolare – s’intende – come la Coca-Cola e la Fiat 500, prodotti a basso costo nati per la diffusione e il consumo, ma che assurgendo a simbolo, sono diventati parte dell’antropologia del Paese. «Ciò che rende straordinaria l’America» – scriveva Andy Warhol nei primi anni Sessanta – «è che è il primo paese ad aver fatto sì che i consumatori più ricchi comprino le stesse cose dei più poveri. Guardi la televisione bevendo una Coca-Cola e sai che anche il presidente beve la Cola, che la beve anche Liz Taylor, e pensi: anch’io bevo la Cola. La Coca-Cola è la Coca-Cola, e nessuna ricchezza al mondo può darti una Coca-Cola di qualità superiore a quella che beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Liz Taylor lo sa, il presidente lo sa, il barbone lo sa e anche tu lo sai». Mutatis mutandis, la Coca-Cola sta agli americani come la Fenech agli italiani. Tutti ne hanno fruito indistintamente (i fruitori) dalla stessa prospettiva psicologica. Mutano le sociologie e con loro le descrizioni, gli accenti e la morale, non il culto dell’immagine che un’intera nazione ebbe per il suo corpo, cui ‘quel’ seno è l’elemento nevralgico.
Reale oggetto della devozione popolare e fonte d’interrogativi fin sopra le cattedre di semiologia, pochi oggetti dell’iconografia profana sono stati immortalati quanto il seno di Edwige Fenech. Di lui pare si sappia tutto. Se in gioventù è florido e rotondo, dal 1973 al 1974, pur conservandone l’armonia e il tono, risulta meno procace a causa di un’eccessiva perdita di peso che ne ha impoverite le forme. Ma saranno le opere a cavallo del decennio a restituirne la florida bellezza, sfoggiato su un corpo cui la raggiunta maturità conferisce plasticità e pienezza. Pieno, di medio-grandi dimensioni e di una forma capace di esaltarne la straordinaria attrattiva erotica, per tutti gli anni Settanta l’enorme seno di Edwige poggerà idealmente sulle cimase di un Paese asfittico e dilaniato nelle sue faide interne, assurgendo a espressione maieutica di archetipi ancora sconosciuti: procace, generoso, invogliante ma anche rassicurante, conciliante, materno. Questi, soli alcuni epiteti con cui negli anni se ne tenterà una descrizione, sempre alla ricerca di una chiave di lettura che ne sveli l’attrattiva così prepotente. Ma la natura crea ma non spiega, e Edwige custodirà inviolato il mistero, versando il suo nettare nella coppa del mito.
Maschera popolare e icona nuda, corpo erotico e fenomeno di costume, dunque; questo è stato, almeno dall’Ubalda in poi, il fenomeno Fenech cui mancò, ai fini di una più compiuta storicizzazione, quel processo di decontestualizzazione che sulle orme del pensiero concettuale delle grandi avanguardie, raccoglie l’oggetto popolare mutandone destinazione e prospettiva. La Fenech non ebbe, come Totò, il suo Pasolini. In molti lavorarono al ‘prodotto’, nessuno riuscì a coglierne la forza del ‘segno’. Edwige Fenech rimase maschera finemente lavorata, in attesa del grande demiurgo che, però, non arriverà mai.
Per non indulgere in facili giustificazionismi potremmo rimproverare all’attrice, semmai, un certo immobilismo che l’ha resa ‘schiava delle sue tette’ (sì, anche lei!), complice di un’industria cinematografica refrattaria al rischio, che in lei vedeva la garanzia di riuscita ai botteghini. Di necessità virtù: privata della possibilità di evolvere artisticamente e affinati con l’esperienza gli stilemi del suo personaggio, l’attrice rinnova di pellicola in pellicola la mise en scene della maschera che l’ha resa celebre, quella di Edwige Fenech, la regina delle docce, l‘esuberante e trasgressiva bomba erotica sulle cui curve esplosive si getteranno, per oltre un decennio, i protagonisti della commedia sexy. Viola, Ubalda, Giovanna e le altre della nomenclatura scollacciata, in fondo, sono un espediente adottato da produttori, sceneggiatori e registi per darle la possibilità d’innescare quel prepotente côtè erotico che le era così connaturato e che farà dire a Giovanni Buttafava, «[Edwige] è l’unica fra le bellone plastificate tipo Rizzoli, Russo, Miti, che dia l’impressione di porgere il proprio corpo al desiderio delle platee con torpore ironico e sornione, con una grazia quasi paesana», e a un divertito Paolo Mereghetti, a proposito di Taxi Girl, «la Fenech è di una bellezza solare» e ancora, «come cantore del corpo della Fenech (mai così spogliata)» – riferendosi a Lucio Fulci che l’ha diretta ne La Pretora – «meriterebbe tre stellette». La Fenech, dunque, che interpreta Edwige Fenech, in una sorta di esercizio di metacinema alla Novelle Vague. E com’è stato prima di lei per altre maschere popolari quali Totò, Paolo Villaggio, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la Fenech, con la prepotenza del suo corpo, assurge nell’immaginario a icona nuda, attraversando a colpi di tette quindici anni di storia del cinema di serie B (Z?), e consegnando alla cultura popolare del paese la prima maschera erotica della celluloide. Ma se Totò ha utilmente sfruttato la plasticità di un corpo smilzo e sgraziato, svirgolato da un mento ritorto che lo rendeva naturalmente buffo, se Paolo Villaggio ha reso celebre il pusillanime ragionier Fantozzi personificandolo in un corpo pingue, sul cui capo si abbatteva la consueta coppola a evidenziarne i più reconditi stati emotivi, così Edwige Fenech, sempre in funzione del proprio corpo, ha creato la propria maschera semplicemente esibendolo. E non poteva essere altrimenti; lei entrava in scena ‘costretta’ da sceneggiature indescrivibili per rozzezza, volgarità e trivialità d’ogni sorta, si spogliava e lì, nuda, prendeva forma la maschera sexy di un’Italia ridanciana e sguaiata, che in lei salutava la diva più plausibile dell’erotismo tricolore.
Ma si sa, le cose cambiano in fretta e nulla è più inebriante delle prospettive che il new deal porta con sé. Al giro di boa degli anni Ottanta, la grande carovana della commedia sexy (e più in generale del cinema di genere) si ferma. Il pubblico, ormai ‘adulto’, non gradisce più. La nascita dell’emittenza privata ha, di fatto, svuotato le sale cinematografiche, consegnandole allo strapotere dell’industria americana. Sorretto da analisi di marketing da economia di scala e battage pubblicitari inimmaginabili per le produzioni nostrane, con la fine degli anni Settanta, il ci-nema a stelle e strisce intercetta i favori del grande pubblico, decretando la lunga agonia del cinema italiano, «come se il pubblico dei giovani avesse sviluppato fenomeni di rigetto o il cinema americano e la televisione producessero anticorpi nei confronti di qualsiasi prodotto di casa» . Stante così le cose, l’intero caravanserraglio della commedia scollacciata se la dà a gambe levate, chi risucchiato dentro le fauci del tubo catodico, chi costretto a ripiegare nei teatri di provincia e chi – avesse seguito i consigli paterni – riparato ad altri e più modesti impieghi. Edwige Fenech, fuggita anche lei, scompare liberandosi definitivamente della sua maschera erotica; gettata con disprezzo nel baule di scena assieme ai cappellini della Giovannona e le parrucche dell’Ubalda, quella stessa notte, Edwige, con un colpo di reni, salta la finestra del camerino, traversa i campi e scompare liberandosi per sempre di un’immagine che, in fondo, non le è mai appartenuta.
Il Corpo dei Settanta – booktrailer
Un quarto di secolo dopo, della regina delle docce nessuno sembra più custodirne il ricordo. L’icona nuda e la sua maschera erotica paiono giacere in un limbo, sepolte nei meandri della memoria collettiva, senza apparente certificato di morte. Il sistema dei media, cresciuto nel frattempo negli alvei della finanza internazionale e delle borse telematiche, con il tacito accordo dell‘attrice ‘transfuga’, ha rigettato ogni rievocazione pubblica, relegandone il nome alle nuove prospettive cui la signora Fenech si darà da lì in poi. Ma come spesso accade nelle miserevoli ipocrisie del vivere quotidiano, la notte, fuori dagli occhi indiscreti di una moralità che ne condizionerebbe i comportamenti, lì, prende vita un’altra Italia. Milioni di connazionali, nell’impenetrabile oscurità delle pareti domestiche, al motto di «vai pure a letto, cara… non ho sonno…», rimangono sintonizzati davanti al televisore per ammirare le dolci e procaci forme dell’icona nuda, con lo stupore e la meraviglia di sempre, in un atto di riconciliazione collettiva in cui s’invoca il mea culpa («Oh, Edwige… scusaci…»). E così, davanti agli occhi concupiscenti del Giuda mediatico, scorrono le immagini di quel piccolo mondo antico, così negletto, rozzo e triviale ma che, diamine!, sapeva ancora essere grato alla sua sovrana. Com’è stato per la politica, anche Edwige sembra vittima del tanto vituperato «riflusso nel privato». Di Edwige – ci testimoniano i dati di ascolto del Giuda mediatico – c’è n’è ancora bisogno, ma se ne fruisce in solitudine, fuori da uno spazio pubblico che ne ha immunizzata la memoria, ammissione abominiosa di sguaiate pulsioni erotiche che puzzano di strapaese, fiaschetti di vino e sagre paesane. L’opinione pubblica che vive e lavora alle guardinghe luci del giorno, l’ha segregata negli archivi impersonali dell’ufficio anagrafe capitolino, il cui nome, Fenech Edwige, è buono per carte d’identità ed estratti di nascita. L’attrice stessa, oggi noto produttore cinematografico, costretta a ricordare i suoi trascorsi cinematografici, prima li rinnega radicalmente , poi forse ammansita dal potere lenitivo del tempo, si riconcilia con essi facendo, però, opera di ricostruzione psico-semantica, e traslatandoli in un mondo immaginifico popolato da folletti e fatine in cui «si rideva molto… non c’era assolutamente niente di morboso» – e ancora – «abbiamo rotto gli argini del puritanesimo, senza fare scandalo, con molta spontaneità nel raccontare…» .
La cosa è antica. Spesso chi fa la storia, non la sa raccontare. Spesso i protagonisti di un’epoca sono troppo indaffarati nel risolvere le inevitabili tensioni che l’azione produce, soprattutto se (e questo è il caso) è un’azione che ha precise implicazioni con la morale sessuale, i costumi e i tabù di un paese. In realtà Edwige fu ben altro. Fu la possibilità di godere della bellezza e gioire della vita; provare quel fremito che corre giù lungo la schiena e che ti fa sentire felice di stare al mondo. Ignobilmente felice. Edwige fu tutto questo e altro ancora. Fu una promessa di redenzione a quanti, nei fragori della protesta, rischieranno di schiantarsi. In anni così tumultuosi e vulnerabili in cui, sulla gioiosa anarchia del vivere quotidiano, si abbatteva una violenza miope e suicida, pochissimi spararono, quasi tutti tirarono la carretta, i più affollarono i cinema alla ricerca del suo corpo nudo. Prima che la storia inciampi sulle barricate del Sessantotto e la rabbia si sciolga in una criminale violenza politica, prima che il male di vivere recida le foglie morte di chi non ce la fa più, prima che l’Occidente abdichi alla vita, Edwige era sempre lì, sullo schermo di un cinema a rassicurare tra le sue tette, quell’inquieta umanità che per oltre un decennio le sfilerà davanti leccandosi le ferite. E anche così è stato possibile ritrovare un po’ di quella felicità così necessaria alla vita. Come ben sa chi vive.
Copyright © Stefano Loparco. Tutti i diritti riservati. Tratto dal libro Il Corpo dei Settanta – Il Corpo, l’immagine e la maschera di Edwige Fenech (Ed. Il Foglio)