Angeli e aspirapolveri
«Proprio in quel momento ho sentito un rumore fortissimo, una specie di esplosione secca a cui ha fatto seguito il fischio lacerante dei copertoni che strisciavano sull’asfalto: poi ho visto l’auto sbandare sulla sinistra, tornare a destra, fare un testa-coda completo e quindi uscire di strada sulla sinistra e capovolgersi nel prato. Uno spettacolo da mozzare il fiato. Ma il peggio è stato quando ho visto che una portiera si spalancava e che una donna veniva proiettata fuori dalla vettura come sospinta dalla mano di un gigante. Il corpo ha strisciato sulla strada per una ventina di metri, poi è rimasto immobile, bocconi, di traverso, nel fossato laterale». Così James Randolph, ispettore di una grande società americana di elettrodomestici, racconta a un noto settimanale italiano gli ultimi drammatici istanti della vita di Belinda Lee; l’attrice inglese, astro nascente del cinema hollywoodiano e il suo anonimo ammiratore, il mito e il suo angelo buono, chino l’uno sull’altro, a ridosso di un burrone che corre lungo una freeway californiana.
E’ la mattina del 12 marzo del 1961, un giovedì come tanti per il signor Randolph. Giorno di visita clienti, come sempre, da sempre. Quella mattina – ricorda Randolph – «percorrevo la strada tra San Bernardino e Baker, quando un’automobile mi ha sorpassato filando ad una velocità che ritengo non fosse inferiore ai centosessanta chilometri orari». C’è solo il tempo per un pensiero («se lo pesca la polizia stradale, quello finisce in guardina!»), quando improvvisamente l’uomo sente un botto violentissimo, come l’esplosione di un proiettile; la macchina che gli è appena sfrecciata accanto, una Ford 1959, perde aderenza, inizia a sbandare pericolosamente, una, due, tre volte, fa un testacoda fino a ruzzolare giù nel burrone con le ruote all’aria non prima di aver sputato fuori dalle lamiere un corpo femminile. «Quando sono stato vicino alla donna, ho cercato di sollevarle la testa: certo capivo che doveva essere giovane e bella […] ero indeciso, non sapevo se voltarla sulla schiena o che altro fare». James non dovrà fare nulla, non ne avrà il tempo: «In quei concitati minuti mi sono accorto che la donna aveva avuto un sussulto, seguito da un fremito che forse è durato solo un secondo ma che a me è parso lunghissimo» . L’ispettore non capisce o finge di non capire fino a quando, giunto all’ospedale in cui la donna è stata trasportata, il Barstow Community Ho-spital, non gli resterà che leggere il laconico referto redatto dai sanitari: «DOA – Dead on arrival» («morta all’arrivo in ospedale»).
La notizia fa immediatamente il giro del mondo fino a raggiungere, nella notte tra il 13 e 14 marzo, le gelide piazze romane: Belinda Lee, una delle attrici più belle del mondo, lei che aveva fatto perdere la testa al principe Don Filippo Napoleone Orsini, dando vita a una delle storie d’amore più travagliate e paparazzate della dolce vita romana, muore il 13 marzo 1961 inseguendo il suo nuovo amore, il giornalista italiano Gualtiero Jacopetti. I due si erano conosciuti sul finire del 1959 durante una proiezione privata del film L’America vista da un francese di François Reichenbach a cui partecipava lo stesso giornalista in qualità di autore del commento parlato. Lei venticinquenne, lui di sedici anni più grande, era subito scoccata la scintilla. Un amore passionale il loro, di quelli che levano il fiato. Con un matrimonio fallito alle spalle e un tentato suicidio a causa della travagliata relazione con l’aristocratico romano, Belinda era un’attrice in ascesa con numerosi film girati a cavallo tra l’Inghilterra e l’Italia, ma soprattutto – come ha ricordato un quotidiano dell’epoca – una ragazza dagli «occhi tristi». Una donna irrequieta e malinconica da quando i genitori, dopo il divorzio, l’avevano rinchiusa, appena bambina, in un collegio privandola dell’amore che ha sempre cercato negli altri. Da lì, tutto d’un fiato: a sedici anni comincia a studiare danza e recitazione, a diciotto debutta nel mondo del cinema, a venti recita ne I perversi con Stewart Granger e Jean Simmons. Nel 1954 Belinda – fisico statuario e sguardo rapace – è sotto contratto per la Rank, la più importante casa cinematografica britannica. Nel 1955 sfila sui red carpet di Cannes e Vene-zia come una diva consumata. Quando nell’estate del 1957 conosce il principe Orsini, Belinda – approdata in Italia per le riprese del film La ve-nere di Cheronea – è ancora la signora Lucas, moglie del fotografo inglese Cornel. Lo rimarrà ancora per poco. La corte del principe è serrata. Troppo per la piccola Belinda, sempre in debito d’amore. E’ l’inizio di un’appassionata relazione con l’aristocratico finita nel più drammatico dei modi. A pochi mesi dal loro incontro Belinda decide di mettere la parola fine a quell’amore. E alla vita: il 28 gennaio 1958, con un gesto estremo, l’attrice ingurgita una dose massiccia di barbiturici. Solo il pronto intervento dei sanitari riuscirà a scongiurarle la morte. Sì, perché l’uomo che l’aveva fatta innamorare, aristocratico di alto lignaggio, assistente al soglio pontificio e uomo di indubbio fascino, è anche marito e padre di due figli, ‘condizione’ a cui – data l’etichetta – non può o non riesce a rinunciare. Un amore impossibile, insomma, che un po’ alla volta ha inquinato l’anima dell’attrice fino alla messa in atto di quell’epilogo disperato. Gli intensi primi piani di Belinda ne La lunga notte del 43 di Florestano Vancini – film a cui lavora nei mesi successivi al tentato suicido – dissimulano il volto stanco di una donna profondamente depressa. Paziente, scrupolosa, professionale sul set – così la ricordano gli uomini della troupe – ma lacerata nell’animo. Senza più voglia di vivere. Poi l’incontro con Gualtiero, la nascita del loro amore. E subito le avvisaglie del rinnovamento. La Belinda triste e inquieta improvvisamente diventa una donna allegra e chiassosa. A poche settimane dalla morte l’attrice – pazza d’amore – aveva detto: «Gualtiero è un dittatore, e su certi temi non ammette repliche. Anzi, è un dittatore su tutti i temi, e in tutte le circostanze. Faccio tutto ciò che vuole lui. Ma io sono felice così. Avevo bisogno di un tipo come lui. Non sono niente senza di lui. Niente». Con lui Belinda si trasforma anche nel fisico. L’immagine effimera della vamp patinata e dagli abiti succinti – come per anni l’avevano immortalata i rotocalchi – era svanita lasciando al suo posto le fattezze di una bella ragazza, sobriamente vestita e dall’aria semplice. A poche settimane dal loro incontro, Belinda e Gualtiero vivono appartati nella casa del giornalista. Separati dal mondo. Le poche frequentazioni si limitano a qualche attore, gli uomini del cinegiornale e gente comune. Ma è alla famiglia del giornalista Carlo Gregoretti – redattore de L’Espresso e amico di Gualtiero – che Belinda guarda – come ha raccontato una volta – con «meraviglia» e «invidia». Quando Gualtiero è a Roma, Belinda ama frequentare quella famiglia numerosa, con i loro cinque figli, così lontana dalla mondanità e il pettegolezzo. E già si ritrova a sognare quel matrimonio in Messico – dove la coppia avrebbe voluto sposarsi – e il bambino che verrà. Belinda aveva finalmente capito – ricorda Mino Guerrini, giornalista e amico dell’attrice – «che ci si può sposare, mettere su casa avere bambini, abbandonare il cinema e dedicarsi a stirare camicie e rammendare calzini. E tutto questo le appariva meraviglioso perché ormai apparteneva al suo futuro». Altrimenti è lei a inseguirlo: «Quando Belinda lo incontrò, Jacopetti stava preparando due film per la Cineirz, La donna nel mondo e Mondo cane […]. E’ difficile dire tutto quello che Belinda ha fatto per lui, per non lasciarlo, per stargli vicino – continua il giornalista –. Tanto per cominciare ha rifiutato di firmare dei contratti che il successo della Lunga notte del 43 faceva affluire abbondanti e vantaggiosi di fronte a lei. S’aggregò invece alla piccola ‘troupe’ di Jacopetti, senza alcun compenso, assumendosi delle mansioni che andavano dalla segretaria di produzione alla donna tutto fare. Cominciarono a lavorare in un paese sperduto della Calabria, in condizioni di scomodità tale, che qualsiasi altra donna si sarebbe arresa. Belinda invece, magari con i ragni nei capelli ma sempre col sorriso sulle labbra, non aveva una parola di rammarico. Un’altra volta andarono in un paese della Sardegna, fra Sassari e Orgosolo, a riprendere i lamenti delle ‘piagnone’ […]. Jacopetti, assieme all’operatore e all’organizzatore, lavorò dalla mattina alla sera, poi si buttava sul letto e s’addormentava pesantemente. Per quattro giorni e quattro notti, praticamente, mai nessuno rivolse la parola a Belinda: ma la ragazza mostrava di non sentire l’usura di una simile situazione. Era felice» .
Quando nel dicembre del 1960, Jacopetti viene arrestato con l’accusa di molestie ai danni di due minorenni, Belinda trascorre quaranta giorni nella capitale cinese. Alloggia in una camera d’albergo, Il Repulse Bay, dalla cui finestra può vedere la prigione in cui è recluso il compagno. Nei pochi minuti che le stringenti regole del carcere consentono, corre a consolarlo. Per ragioni di segretezza – l’entourage dell’attrice teme ripercussioni negative –, Belinda trascorre il resto della giornata rinchiusa in camera dove due volte al giorno le servono i pasti caldi. Uscito di prigione, lui aveva ripreso a girare il mondo. E anche in quell’occasione, lei – sempre più distante dal mondo del cinema – lo aveva seguito: Thaiti, Roma, Honolulu e, infine, Los Angeles. Quel giorno viaggiavano a bordo della Ford 1959 con Paolo Cavara e l’italo-americano Nino Falenga alla guida dell’auto. In tasca due biglietti d’aereo per l’Italia. L’indomani la coppia avrebbe fatto ritorno a Roma.
Gualtiero sopravvivrà e continuerà nel suo lungo viaggio intorno al mondo. Quello di Belinda, invece, termina lì, riversa a terra, nella polvere di un terrapieno californiano. Sarà seppellita il 21 marzo 1961 all’Hollywood Memorial, non distante dagli studi della Paramount, a Los Angeles. Alle esequie, pochi i presenti: alcuni amici di famiglia, Rossano Brazzi e la moglie Lydia, Franco Prosperi e l’attrice Lorella De Luca. Una quindicina di persone in tutto. Gli occhi rivolti alla bara bianca ricoperta da cento rose rosse e un nastro verde che cinge il feretro quasi a proteggerlo con su scritto quell’unica parola: «Gualtiero».
Il male dentro
Martedì, 29 novembre 1961. Un aereo della compagnia SuperJet proveniente dalla California atterra all’aeroporto di Ciampino, vicino a Roma. Si apre il portellone e dalla scaletta scende uno stuart in divisa scura. Il volto mesto. Giunto a terra, un tecnico aeroportuale gli porge nelle mani un pacchetto sigillato con lo scotch da imballo. L’addetto scruta il pacco per un po’ poi, tenendolo ben stretto in mano, si allontana dall’aereo. L’indomani la stampa titola amara: «E’ tornata in Italia Belinda Lee». Quello stesso aeroporto che l’aveva vista decine di volte salire e scendere le scalette dell’aeromobile inseguita da orde di paparazzi, ora assiste al rimpatrio delle sue ceneri dentro a un pacco da imballo giallognolo grande quanto due stecche di sigarette. Ad attenderla, poggiato a un bastone e ancora sofferente per i postumi dell’incidente automobilistico, il compagno dei giorni felici, Jacopetti. Ma è un altro uomo. Le cure somministrategli dai sanitari americani gli hanno salvato l’uso della gamba, fratturata in più parti nel sinistro, e rimesso in sesto il braccio, ma a caro prezzo; quella che inizialmente si è rivelata un’efficace terapia contro il dolore, si è presto trasformata in una dipendenza: Jacopetti è morfinomane. Quando il 7 maggio dello stesso anno, di ritorno dagli Stati Uniti, il giornalista atterra a Fiumicino su una sedia a rotelle, è un uomo profondamente prostrato, il volto pallido, lo sguardo spento, fuma una sigaretta dietro l’altra, chiede dell’anziano padre che non scorge tra la folla, risponde distrattamente ai giornalisti «sto bene… sto bene», ma la realtà è che è un uomo dilaniato, nel corpo e nell’anima. Inizia uno dei periodi più bui nella vita del giornalista. Diviso tra una camera d’albergo, la sala montaggio e le iniezioni di morfina. A fargli compagnia in quei drammatici giorni, gli amici di sempre: Elsa Martinelli, Olga Di Robilant, Rossano Brazzi, Indro Montanelli e la moglie Colette Roselli, oltre ai collaboratori più stretti, Angelo Rizzoli, Franco Prosperi e Nino Oliviero. Nonostante tutto il 14 dicembre aveva voluto esserci. E’ il giorno del funerale italiano di Belinda, nel cimitero degli inglesi nel quartiere Testaccio a Roma. Il secondo, dopo quello di Los Angeles. Era stata l’attrice stessa a volerlo. «Se dovessi morire, voglio essere seppellita a Roma» – aveva confidato alla madre. Quel giorno gli occhi sono tutti per lui: Jacopetti. A vederlo sembra quello di sempre; impeccabile nel suo cappotto di lana sopra all’elegante completo scuro. Sbarbato, i capelli impomatati e poi quegli occhi azzurri del colore del mare. Durante le esequie non una parola, lo sguardo basso, chiuso nel suo dolore. Il giornalista cammina a fatica sotto la riga di cipressi neri, poggiato a quel bastone che ormai da mesi lo aiuta a camminare. Qualcuno si avvicina e gli sorregge il braccio. Giunto alla tomba di Belinda, Jacopetti ascolta l’orazione funebre poi, sempre in silenzio, osserva l’urna con le ceneri della compagna eclissarsi inghiottita nell’incavo del sepolcro fino a scomparire. Di ritorno dal cimitero, Jacopetti tornerà alla vita di sempre: la moviola. E la morfina.
L’idolo di cristallo
Otto iniezioni di morfina al giorno. Tolte le ore destinate al sonno, fanno una ogni paio d’ore. Le prime gli erano state somministrate dai sanitari americani all’indomani dell’incidente. Il viaggio di ritorno verso l’Italia, nel maggio del 1961, Jacopetti se l’è fatto così, con quell’«idolo di cristallo» che gli brucia il sangue nelle vene, anestetizzato alla realtà. A Roma, non c’è voluto molto a capire che Jacopetti ha un problema. «Dopo l’incidente – rammenta Prosperi – Gualtiero era un uomo cambiato, trasfigurato nel carattere e limitato, nel vivere le cose della vita, a quelle due ore che intercorrevano tra un’iniezione e l’altra». Così ha ricordato quei mesi il giornalista: «La morfina mi annebbiava il cervello, tutte le mie sensazioni erano attenuate, svanite. Anche quando mi pareva di essere lucido, presente alle cose, avevo i riflessi come allentati. Non esistevano l’ansia, la disperazione». Sono parole del 1966 rilasciate a un noto rotocalco, quando la battaglia contro la dipendenza è vinta grazie alla «grandissima forza di volontà di Gualtiero», come l’ha definita Prosperi. E’ quella solo l’ultima tappa di un angosciante calvario durato oltre un anno. Il senso di alienazione, l’apatia, l’assoggettamento a quell’idolo bugiardo, avevano spinto Jacopetti, ormai prossimo alla guarigione fisica, sul baratro della disperazione: «C’era sempre, in ogni momento, una rassegnazione a ogni cosa, accettavo senza ribellarmi, era un vivere senza emozioni. Pensavo a Belinda come a una cosa lontana. ‘Ma tu cosa sei diventato? Dovresti buttarti dal letto con il gesso e le ferite, urlare, cercarla. Vedere dove l’hanno sepolta, sapere tutto di lei e di come è accaduto. Mi osservavo incredulo, deluso, persino disgustato di me. Credevo di amarla molto di più. Non pensavo che avrei potuto accettare così facilmente, così stupidamente di averla perduta. La morfina fa questo, è questa la sua seduzione: sei lucido, almeno ti pare di esserlo; e vedi ogni cosa con un grande distacco, quasi tu fossi in un altro mondo dove niente ti tocca né ti commuove» .
Evidentemente non è così. E se ne accorge presto anche il giornalista quando, nell’estate del 1961, tenta per la prima volta di disintossicarsi: «Lo volevo fare io, di mia volontà, senza l’aiuto di un medico. Mi pareva facile, al principio. Mi dicevo: ‘Me ne tolgo una fiala per volta, non me ne accorgerò neppure’». Per le prime filale non è un problema. «Con l’ultima la lotta fu tremenda e non la vinsi. Togliersi la droga di dosso è uno sforzo che non si riesce a compiere da soli, supera qualsiasi programma, la volontà ne esce sconfitta, anzi, la volontà non esiste, non c’è». Si ricorre alla narcoterapia. E’ un modo per sedare il sistema neurologico in attesa che la volontà ne esca rafforzata. La cura del sonno fa effetto. Un anno e mezzo dopo la guerra è finalmente vinta. E la vita torna a fluire: «Ero guarito dalla morfina, non ne sentivo più il bisogno. Ma nello stesso momento scoprivo il dolore per la morte di Belinda, come se mi fossi svegliato allora nella strada di Los Angeles, in mezzo al deserto. Era passato tanto tempo, ma io cominciavo appena a soffrire».
Il luogo lo aveva voluto lui. La tomba è un dono del comune di Roma. Ora Belinda riposa lì, al cimitero degli inglesi, vicino al mausoleo del poeta romantico Percy Bysshe Shelley. «Appena c’è un raggio di sole il posto si illumina. Stando dal mio ufficio io lo posso vedere quel posto. E’ a due passi, par di toccarlo».
L’ultima foto di Belinda e Gualtiero è del marzo 1961, a pochi giorni dal tragico incidente. Lo scatto li ritrae sullo sfondo del mare di Honolulu, giovani e sorridenti. Il vento li azzuffa i capelli. Attorno, il vuoto. Guardano lontano, un punto imprecisato oltre la traiettoria dell’orizzonte. Tornano in mente le parole del poeta: «C’è uno spettacolo più grandioso del mare, ed è il cielo, c’è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l’interno di un’anima».
Copyright © Stefano Loparco. Tutti i diritti riservati. Tratto dal libro Gualtiero Jacopetti – Graffi sul mondo (Ed. Il Foglio)
Commovente…poi Jacopetti ha fatto dei film/documentari che erano molto ma molto fuori dal comune..direi avanti di minimo venti anni..e poi la morfina….le ha provate proprio tutte…incidente con la morte di Belinda….e tutto il resto che è citato nell’articolo sopra….; era un grande personaggio…molto molto coraggioso basta guardare i suoi film per capire che era una persona speciale fuori dal comune…io personalmente sento la mancanza di artisti di questo calibro..difficile che si ripresenteranno personaggi di questo calibro,coraggio e creatività cinematografica/documentaristica….i suoi film ti aprivano e ti aprono ancora gli occhi sul mondo!
Scusa il ritardo, Alberto. Ma in fondo, hai detto tutto tu. E hai detto bene.
Stefano