L’UOMO CHE NON VOLLE FARSI DIO
«Nei suoi occhi c’era qualcosa di innaturale, di non umano. Era quello che credevo io, ma alla fine anche il pubblico di tutto il mondo rimase a bocca aperta, credendo, per un prodigio, di avere davanti Gesù»
Franco Zeffirelli
Britannico, nato a Salford nella contea di Lancashire, poco più che trentenne, di statura medio-bassa, non per forza bello – naso irregolare, labbra sfuggenti, capelli riccetti e grandi occhi olivigni di foggia soproporzionata al volto –, Robert Powell se ne sta mano nella mano nella hall dell’albergo emiliano con la giovane moglie, Barbara, stretto nella sua giacchetta di pelle color vinaccia, gli stivaletti dal tacco alto e gli occhiali Ray Ban calati sul suo sguardo perennemente immalinconito, occhi da perdente.
Il 15 maggio del 1977 l’attore protagonista di Gesù di Nazareth è a Salsomaggiore per ritirare un premio speciale come attore rivelazione dell’anno nell’ambito del XVII Premio Nazionale Regia Televisiva. Franco Zeffirelli – in lizza per la statuetta con 32 preferenze delle 59 a disposizione della giuria composta da giornalisti televisivi – quella stessa mattina, con un telegramma inviato all’organizzazione, aveva fatto sapere di non esserci «non ritenendo la situazione generale italiana oggi e il carattere, e lo spirito del mio lavoro Gesù di Nazareth, adatti per celebrazione premi».
In assenza del grande protagonista fiorentino, la scena è tutta per il britannico. Seduto su un divanetto della hall, l’attore scespiriano con un trascorso nella prestigiosa Royal Shakespeare Company, rivela alla stampa la sua preoccupazione. Ed è rivolta a quel Messia rivoluzionario cui ha prestato il corpo e che se lo ha sdoganato nell’empireo della settima arte, teme gli faccia pagare un caro prezzo.

Fuori piove, Barbara è tornata in stanza, Robert fuma con piacere, sul tavolino il suo whisky con tre parti d’acqua e la fettina di arancio di Ribera sul dorso del vetro. Le lenti fumé calate sugli occhi. Per la trasferta emiliana l’attore aveva chiesto il meglio: un alloggio di lusso e l’autista privato. Concesso. Racconta della paura di essere identificato dal pubblico con Gesù, del suo bisogno di smarcarsi da quell’accostamento ingombrante. «Sono solo un attore» – ripete come un mantra durante l’incontro con la stampa. «Non ho nessuna intenzione di farmi crocifiggere». Perciò terminate le riprese in Tunisia – nel giugno del 1976 – s’è subito raso la barba, sotto la parrucca di scena sono spuntati i capelli riccetti sfumati sulle tempie e che danno al volto quella caratteristica forma di piramide all’ingiù, fronte spaziosa e mento puntuto. Se è solo un attore – come va ripetendo –, ammette però di essere fortunato. Non immeritatamente, pensa. Anni di gavetta – racconta –, prima nei teatri di provincia, poi la calata a Londra e la televisione, tanta; qualche particina al cinema via via di maggior rilievo come nei due film di Ken Russel La perdizione (1974) e Tommy (1975). Nulla di ché – fuori dall’Inghilterra il suo nome non dice molto – ma nulla che non gli abbia consentito di coltivare la sua vocazione artistica, contro un padre che lo avrebbe voluto avvocato, lui che aveva riposto nel cassetto la laurea in giurisprudenza presa al Manchester College of Commerce. Al liceo era stato compagno di classe di Ben Kingsely, il futuro Ghandi della finzione cinematografica. Ben e Robert: che strana coincidenza per due ragazzini che all’odor di santità preferivano quello di una sottana. Sorride.

A vederlo nella giacchetta di vinaccia, piccolino, gambe ossute sotto la tela dei jeans che scende a zampa d’elefante, testa e occhi sproporzionati, sembra un ragazzo come tanti, Robert. Una vaga rassomiglianza con Tom Wopat, il futuro Luke di Hazzard, la celebre serie televisiva statunitense degli anni Ottanta. Ama il calcio – giocarlo e vederlo –, è tifoso del Manchester, se la cava bene a poker ed è un cultore della pennica, a qualsiasi ora del giorno. Sposato per doveri contrattuali verso la produzione con una ex ballerina – bellissima, biondissima – da cui sta per avere il suo primo figlio, a vederlo così Robert sarebbe perfetto per la parte di un pugile italo-americano. Un peso leggero tutt’al più. Cuore buono, cazzotto lesto e sorriso sbozzato come chi di botte ne ha prese e date tante. Proprio come un pugile di celluloide, l’attore ride con circospezione, con diffidenza, mentre accende un’altra Dunhill. Sì, sarebbe perfetto per la parte di un boxeur suonato semmai il cinema si accorgesse dei pesi piuma. Toro Scatenato, Rocky Graziano, Rocky Balboa, Alì: da sempre i fotogrammi imprimono le gesta dei grandi del ring, i loro epici incontri, storie di gente che è uscita dall’angolo della vita, storie di eroi sub-urbani, solo i più PIù forti, sempre i più grandi. Invece Robert potrebbe aspirare alla fascia dei super-leggeri. Robetta da niente. E poi, quel viso piramidale, la statura non divina, le arterie corrose dal fumo di sigaretta, la passione per il gioco a carte e le freccette. Una faccia non proprio da attore hollywoodiano, senza quella bellezza sfrontata che ha reso celebri i Clark Gable, Dean Martin, Gregory Pack, Rock Hudson, Marlon Brando e Marcello Mastroianni, attori inarrivabili, tutto d’un pezzo perché la bellezza rende sicuri. Ecco, Robert con loro c’entra nulla. Non è brutto ma certamente bello non è e fa l’attore drammatico «perché non so né cantare, né ballare» – dice a un giornalista della hall. Cerca la sua strada nel mondo nell’arte ma non l’ha ancora trovata. Si stanca presto di ogni ruolo – al punto di aver già diradato una volta gli impegni televisivi per tornare al teatro disgustato dalla celebrità –, non della moglie Barbara – «Babs» come la chiama lui – con cui vive da quattro anni.
Robert Powell a Salsomaggiore, trentatré anni da compiersi a settimane – è nato il 1° giugno del 1944. Trentatré anni, l’età della consacrazione, l’età del martirio di Cristo. Il confronto è nemmeno immaginabile. Anche quando toglie gli occhiali fumé e li ripone nel taschino della giacca, l’attore sembra voler marcare le differenze, dissimulando platealmente pose messianiche. Semmai sbatte le ciglia con grande libertà. É un sintomo, presto una conferma. Attorno, almeno in potenza e se solo la buona educazione lo avesse consentito, sarebbe tutto un vociare di Ohhhh: il ‘suo’ Gesù non lo avrebbe mai fatto. Lo sanno bene i giornalisti, il personale dell’albergo, i curiosi e le fan tenute alla larga dagli uomini della sicurezza che, a dire il vero, avrebbero faticato molto di più con un Miguel Bosé qualsiasi: il Gesù di Zeffirelli ha occhi lisci come pareti di vetro e non sarebbe mai venuto meno al proposito di mantenerli spalancati, come fari in una notte peciosa, tale è la portata del messaggio da annunciare. E al di là di una singola scena – quella in cui è raccontata la parabola del figliol prodigo –, gli occhi del Cristo rimarranno spalancati per tutti le cinque puntate e i trecentottanta minuti in cui si compone l’opera messianica andata in onda su Rete 1 dal 27 marzo al 24 aprile 1977.
Non avrebbe dovuto essere Gesù, Robert. Per più di una ragione. Estatica, estetica. Cosa avrebbe potuto dare al fondatore del cristianesimo un uomo come lui? Un anglicano non praticante vagamente formato ai precetti della Chiesa d’Inghilterra che però non segue, e i cui luoghi di culto, prima e dopo il Gesù, continua a disertare. Non avrebbe dovuto nemmeno essere Gesù, semmai aveva guadagnato una opzione per il più carogna dei suoi discepoli, Giuda, grazie a una pièce di Tom Stoppard e la rappresentazione londinese de l’Otello che avevano ben impressionato il regista fiorentino, da sempre cultore dell’opera scespiriana. Sa solo che nella tarda primavera del 1975 si era trovato scaraventato a Cinecittà per un provino, come se ne facevano a iosa in epoca di grandi produzioni internazionali. Quel giorno Robert si era presentato con i capelli più lunghi del solito e un ciuffo a camuffargli la fronte ingombrante, lo sguardo placido, la saliva azzerata. Forse un po’ intimidito – Zeffirelli era già un’icona mondiale di quelle che davano del tu a John Lennon e Maria Callas –, aveva retto l’emozione. Poche battute, qualche foto – fronte-profilo-spalle –, una ripresa-video – a sistemargli le luci è il quattro volte Nastro d’Argento Armando Nannuzzi – per sentirsi dire: «le faremo sapere». Tutto qui. L’indomani mattina, dopo la colazione aveva lasciato l’albergo con tutta calma e su un taxi stava per raggiungere l’aeroporto di Fiumicino da dove sarebbe dovuto partire alla volta di Londra. Ma non aveva fatto in tempo a lasciare la capitale. Giunto all’aeroporto, una macchina della produzione l’aveva caricato per riportarlo a Cinecittà.
Era andata così. La sera precedente Zeffirelli, passando in rassegna il diluvio di provini scattati agli aspiranti Gesù, aveva trattenuto il fiato davanti a una piccola immagine in bianco e nero: lo scandalo della croce, la resurrezione, il mistero della fede; tutto in quella foto esaltava l’esperienza del sacro; tutto per quel primo piano di un giovane uomo dai tratti sindonici, il capo avvolto nel talit di lana, la barba non ancora fluente e due occhi limpidi come le acque di un mare primitivo. Sul retro pochi caratteri dattiloscritti – NAME: ROBERTO POWELL; AGE: 31; NATIONALITY: ENGLAND.

L’indomani pomeriggio l’attore era di fronte a Zeffirelli, di ritorno dall’aeroporto. Gli era stato detto che c’era da fare un nuovo provino. Zeffirelli si era raccomandato con una costumista prima che i due prendessero la porta del camerino. Il tempo d’indossare una tunica, la parrucca e ritrovare una compostezza apparente. Di ritorno nella stanza Robert aveva avanzato verso Zeffirelli, rimanendogli a due passi, ammutolito. Non una parola. E più taceva più il regista si faceva piccolo, piccolissimo, «come se si formasse intorno, improvvisamente, una immagine di cui lui era un tramite». Lo stesso uomo che la sera prima gli aveva procurato un così forte turbamento in foto, gli si parava davanti in tutta la sua imperscrutabile sacralità. Quell’immagine, quelle sembianze, quel volto gli parlavano dentro, attraverso lo sguardo di quel giovane uomo dagli occhi carichi di sofferenza e attesa. Occhi da perdente. Dalle rappresentazioni del Mandylion attraverso i canoni bizantini, rinascimentali e tardo ottocenteschi, passando per il sacro lino sindonico, l’intera iconografia cristologica dall’alba della civiltà sembrava aver plasmato le fattezze di quel giovanotto britannico dagli «occhi innaturali, non umani» – ricorderà anni dopo il regista.
Una sarta sgattaiolata per caso nello studio, davanti all’uomo col talit aveva strabuzzato gli occhi per poi lasciarsi sfuggire: «Ma è Gesù!». Era un segno. Che Zeffirelli aveva voluto cogliere: «la parte è tua» – aveva detto all’attore. Per poi aggiungere: «Quella di Cristo».

E così a far data 29 settembre 1975 e per otto mesi Robert si era trovato catapultato in quella produzione faraonica con numeri da vertigine: sono stati girati chilometri e chilometri di pellicola per un totale (col materiale di scarto) di oltre cento ore di proiezione, più di centocinquanta tra operai, tecnici e maestranze, oltre duecentoquaranta attori, una media di 350 comparse al giorno per le scene di massa, ventotto mezzi tra autocarri e roulottes, un ‘area’ fissa per ‘girare’ di seimila metri quadri, trentasei chilometri di tubi innocenti, una costellazione di stelle cinematografiche da far impallidire Ben Hur – Laurence Olivier, Peter Ustinov, Anthony Quinn, Fernando Rey, Christopher Plummer, Rod Steiger, Anne Bancroft, Valentina Cortese e Claudia Cardinale per citare solo i nomi più noti –, duecentottanta parti parlanti e un set itinerante tra il «Marocco, nel villaggio di Fertassa: e proseguirono poi in altre piccole località: Meknes, Fez, Azru, Tinghir, e Uuarzazate. Tre mesi dopo la troupe si trasferì in Tunisia, a Monastir, dove rimase fino al 28 maggio del ’76. Altre scene vennero girate nella grande oasi di Gabes, a Lamta, nel deserto di Douze, nella regione del lago di Iskheul e a Sousse, dove sono state ambientate la domenica delle palme e la crocefissione».
Tutto per raccontare al mondo la vita di quel falegname nato a Nazareth, morto sulla croce e risorto secondo le Scritture e dalla cui vicenda terrena la civiltà data la propria Era: prima e dopo Gesù, fondatore di una religione nuova da lui chiamata Cristianesimo.
C’è da rabbrividire. E Robert lo sa bene quando il 15 maggio del 1977 a Salsomaggiore, davanti al bicchiere di whisky vuoto, la sigaretta ormai spenta nel portacenere e prima di sperdersi nella hall assiepata di gente, immagina un futuro senza Dio.

Quarant’anni dopo il debutto televisivo di Gesù di Nazareth, si stima che lo sceneggiato abbia raggiunto oltre un miliardo e mezzo di persone in ogni angolo del pianeta. Robert ha avuto una carriera discontinua senza più tornare al successo del 1977. Per il grande pubblico è sparito nel nulla. Ma è solo tornato alla sua vera vocazione, il teatro, e alla sua bella casa nel nord west di Londra dove da oltre quarant’anni vive con sua moglie, Babs. É svanito per sempre anche quel volto di celluloide a ‘immagine e somiglianza’ di Dio. Eppure ancora oggi c’è chi, come la sartina del provino, davanti alla sua immagine, china il capo, giunge le mani e prega. Prega davanti all’immagine di Robert Powell, attore di Salford, amante del Manchester e le freccette. L’uomo che non volle farsi Dio.
Stefano Loparco