In fondo, F. T. Marinetti (si chiama Filippo Tommaso), caposcuola del futurismo, è ancora quale io lo conobbi or sono sei anni a Firenze. Ha perso gli ultimi capelli e ha guadagnato, in compenso, qualche chilogrammo di peso; ma nelle linee essenziali della persona fisica e della persona spirituale è rimasto fedele a se stesso: tutto impeti disordinati e scatti fulminei, ricco di un eloquio precipitoso ove i termini più succulenti dell’argot parigino si mescolano a un italiano telegrafico: incapace di discorrere senza colorir le sue parole con una mimica così fortemente accentuata che sembra di momento in momento dover degenerare in una qualche prodigiosa danza del ventre; tutto ebro di felicità quando, in compagnia di festevoli amici, ha potuto vagabondare per ore ed ore lungo le vie deserte delle città notturne, destando gli echi insonnoliti con la declamazione spasmodica di un macabro poema decadente, e accendendo le tenebre coi lunghi razzi di riso che zampillano dal suo smargiasso umorismo. Allora non recitava i capolavori del futurismo, che era ancora sulle ginocchia di Giove; recitava poesie francesi consacrate dall’ammirazione universale, se non dall’Accademia; negli istanti più lirici balzava dall’una all’altra estremità della pedana come una pantera ferita. Ma era ancor più divertente per istrada o al caffè: divertente, nel miglior senso della parola. Dopo Firenze, lo rividi molte volte a Milano: tutto acceso in volto ed entusiasticamente urlante in un crocchio di giornalisti e di letterati, attorno ad una tavola del Savini. E vorrei rivivere: qualcuna di quelle serate; tanto raramente mi avvenne in seguito di conoscere un uomo cui, pur senza vizi volgari, la vita sembrasse cosa naturalmente piacevole e gioconda, egualmente benigno e spontaneo nell’accoglienza affettuosa e nell’ingiuria polemica, straricco di forze fisiche ed intellettuali, eppur di nient’altro desideroso che di sperperarle per allietare gli amici e i conoscenti, e se stesso. La sua irrequietudine non tollerava ristagno: saltava di entusiasmo in entusiasmo, di motto in motto come il camoscio salta di rupe in rupe. Aveva gusto ed ingegno; ma, nella foga precipitosa con cui viveva e parlava, era impossibile distinguere tra il bello e il brutto, tra il falso e il vero. Pareva quasi che dalla superficie glabra del suo cranio emanassero crepitando miriadi di fugaci scintille come da una parete liscia contro la quale si fosse strofinate un fascetto di zolfanelli. Viveva, parlava, pareva: ho cominciato dal dire che Marinetti è oggi press’a poco tale qual’era sei anni or sono, e ho finito per sdrucciolare verso lo stilo da necrologio. Nel giro di pochi periodi cadevo vittima anch’io del comune pregiudizio: che Marinetti sia molto cambiato da quello che fu: che Marinetti sia un uomo finito, come si dice nel gergo dei letterati. Il grosso pubblico che lo conosce solo da quando egli va bighellonando coi suoi accoliti e battendo la grancassa del futurismo, non se n’è accorto; ma se no sono accorti i letterati, che con quella candida fraternità, con quella fervorosa carità cristiana che li distinguono dal resto dell’uman genere, van mormorando litanie sulla dura sorte di questo buon figliuolo, che aveva tanto ingegno e non ne ha più, che aveva tanto spirito, e gli s’è svanito, che aveva promesso tante cose e non ha mantenuto quasi nulla. Peccato mortale! giacché qualche cosa poteva davvero fare il Marinetti. In francese o in italiano? chi sa? Allora lo chiamavano per affettuoso dileggio il poeta franco-italiano; poiché, nato da parenti italiani in Egitto, il Marinetti, incerto fra l’italiano e l’arabo, s’era deciso, non volendo far torto a nessuno, per il francese. Andavano, sì, buccinando che ad orecchie francesi la sua lingua dava un certo suono di barbarico esotismo; ma io non riuscivo a percepirlo, o pensavo con altri molti che nella Conquète des étoiles, malgrado l’immaginazione rodomontesca e l’incorreggibile disordino di struttura, fremeva un invidiabile potenza lirica e che nel Roi Bombance il cattivo gusto di certi particolari e la torrenziale verbosità non bastavano a togliere valore alla stupenda vigoria dell’aristofanesca concezione. La concezione materialistica dalla storia generava finalmente un gorgoglio di feroce riso. Poiché i partiti politici non sono che l’ipocrita nomenclatura delle classe sociali, che lottano l’una contro l’altra per il pane quotidiano; poiché l’ideale non è che la lucida corazza della faina urlante e combattente, il poeta, nella società moderna, è una specie d’idiota, incomprensibile ai contemporanei e incapace di comprenderli. Clericali o socialisti, conservatori e rivoluzionari sono per lui le quattro facce di un Erma quadrifronte egualmente laida e ripugnante, da qualunque lato si osservi; facce senza luce spirituale, emaciate dal digiuno o illividite dalle indigestioni. Il re si chiama Bombance, l’arcivescovo si chiama Berlaine, il demagogo rivoltoso si chiama Ventreerutuz, Ventrevuoto. Si equivalgono: sono tutti e tre sacri alla Putredine, alla Sainte Pourriture, che è la loro vera divinità. E invano canta e sogna nelle pause dei loro osceni deliri l’ultimo rappresentante dell’idea, il poeta, ovvero l’Idiot, poiché nient’altro che un idiota può essere giudicato dagli antropofagi suoi contemporanei; e passa inascoltato o deriso come già Cassandra fra i Troiani.
Da una simile ispirazione poteva nascere il capolavoro. Non nacque, perché a Marinetti mancava la serietà del sentimento. Egli non aveva l’orrore del mostruoso, pur mentre concepiva la sua macchina mostruosa; anzi gli pareva divertente e cocasse. La fine degli ideali, il dilagare o lo spadroneggiare delle cupidigie materiali lo solleticavano piacevolmente nell’intelletto, ma non lo commovevano nel cuore. Perciò, invece del capolavoro, che non sorge se non quando tutte le attività dello spirito sono in concorde agitazione, gli venne fatta una ingegnosissima fantasmagoria, che alla fine lasciava nell’animo del lettore l’impressione di una burla gigantesca. L’immaginosa fecondità del poeta ci trascinava con sé: la sincerità delle sue intenzioni ci persuadeva debolmente. Ci pareva che con la stessa violenza e con lo stesso spirito con cui aveva deriso la brutalità di un mondo, che non vivo se non per la pagnotta, avrebbe potuto deridere l’ingenuità di un altro mondo ove si vivesse per le idee. Il contenuto gli era indifferente: perciò la sua forma abituale diveniva lo scherzo. Gli amici letterati sbagliano dunque quando, detergendosi una furtiva lagrima, deplorano che il Marinetti si sia traviato, e quasi quasi vedono nel futurismo un sintomo di follia. Marinetti è un uomo equilibratissimo e il futurismo è una meravigliosa facezia. Proprio come il roi Bombance; anzi è una specie di continuazione del roi Bombance. Nel dramma scritto, il poeta, l’idiota, era di temperamento malinconico e sentimentale, e lasciava che la bestiale stupidità dei contemporanei si burlasse di lui. Nella farsa vissuta, nel futurismo, il poeta ha assunto un atteggiamento da buffone shakespeariano: fa ridere gli altri, sì, ma ride anche lui. Il pubblico, che va ad ascoltare nei teatri le declamazioni futuriste, lancia torsoli ai poeti, e si smascella dalle risa, e va fuori tentennando desolatamente la testa, per ipocrita pietà di quei poveri pazzi. Ma si divertirebbe meno, se sapesse che il caposcuola futurista, com’io fermamente credo, si diverte più di lui, e ride meglio perché ride l’ultimo. In una beffa così grandiosa il vero beffeggiato è colui che crede di divertirsi allo spalle di chi ha inventato il giuoco e non suppone nemmeno lontanamente che l’uomo di cui ride sia un burlone. Quando Marinetti, accompagnato da un intero stato maggiore di poeti o di declamatori, tenne la seconda accademia futurista al Lirico di Milano, riuscì a dominare la tempesta con un altissimo grido che gli partiva dal cuore: «non chiediamo applausi, ma fischi». Or è poco più di un anno una sua commedia, La donna è mobile, rappresentata per la prima volta a Torino, fu interrotta da un putiferio di urla ignominioso. Marinetti uscì sulla ribalta, come fanno gli autori acclamati, e, rivolto al pubblico, dichiarò: «Ringrazio gli organizzatori di questa fischiata, che altamente mi onora». Era in perfetta buona fede tutte e due le volte. Gl’insuccessi del futurismo comincerebbero quando il pubblico cominciasse a sbadigliare per necessità e ad applaudire per convenienza, come fa in quasi tutte le serate di conferenze e di recitazioni. Ma nel tumulto e nell’insulto il futurismo prospera e cresce.

Giacché che cos’altro ha mai voluto fare il Marinetti se non la parodia della celebrità? Nel mondo moderno, così egli pensava, scrivendo il roi Bombance, le aspirazioni politiche sono tutt’uno con le contrazioni della pancia vuota e con gli spasimi del ventre dispeptico; nel mondo moderno, così ha continuato a pensare, escogitando il futurismo, la gloria si confonde con la celebrità. Gli uomini ambiziosi non desiderano più di vivere col loro pensiero e con le loro opere nell’anima dei posteri: questa era la gloria. Vogliono brillare con lo loro apparenze davanti agli occhi, ronzare con l’eco delle loro gesta negli orecchi dei contemporanei: e questa è la celebrità. Simile, almeno in questo, a Victor Hugo fanciullo, che disse: «lo voglio essere come Chateaubriand». Marinetti si propose di diventar celebre come Gabriele D’Annunzio. Scrisse, tra l’altro, un opuscolo: D’Annunzio intimo, e più tardi un libro intero: Les dieux s’en vont, ove la curiosità dello scrittore, eliminando quasi tutti gli altri fattori del complicatissimo fenomeno d’annunziano, si ferma sul clamore di pubblico richiamo che ha accompagnato l’opera dannunziana nel suo diffondersi pel mondo. Alla grandezza, alla gloria di quell’arte Marinetti restava insensibile: quel che gl’importava era la sua rumorosa celebrità. E parve fin d’allora aver fissato una bizzarra scommessa con se medesimo: celebrità? vi farò vedere come si conquista. Da quel geniale dilettante od epicureo che era, non stette nemmeno un istante a pensare s’egli non avesse per ventura i mezzi per conquistare la gloria. Purché si facesse del frastuono intorno al suo nome. Ed inventò il futurismo.

Nel febbraio dell’anno passato l’Italia fu invasa da immensi manifesti, ove una laconica dicitura a grandi lettore rosse annunziava: «Il Futurismo – F. T Marinetti». Che cos’era mai? La soluzione dell’enigma venne qualche giorno più tardi, con un foglio volante che il fondatore della nuova scuola distribuì a migliaia di copie in tutte le parti del mondo, e che poi ripubblicò sulla sua rivista, Poesia, una strana pubblicazione di formato bislungo, che esce ad intervalli capricciosi, ed ove qualunque parto di cervello umano, sia d’Italia, o di Germania, o della Terra del Fuoco ha diritto di asilo, purché, almeno nello apparenze tipografiche, si distingua dalla prosa. Il futurismo voleva affrancare l’umanità, e specialmente quella parte dell’umanità che si diletta di letteratura, dall’opprimente culto del passato. Il suo proclama consisteva di undici capoversi, fra i quali il più interessante era senza dubbio il terzo: «La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi o il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». Era evidente la caricatura di certe tendenze energetiche, sportive, imperialiste che da parecchi anni circolavano nella vita e nel pensiero europeo.
E tutto quanto il futurismo è una caricatura, in grandissima parte volontaria: soprattutto nel modo come il caposcuola ne ha diffuso la fama per il mondo. I metodi adoperati dal Marinetti non son diversi da quelli con cui si lancia un nuovo specifico contro l’esaurimento nervoso. La cupidigia industriale e borsistica della nuova Italia e l’insaziabile dilettantismo letterario della vecchia Italia, la credulità del pubblico assuefatto agli espedienti americani di réclame, ma non ancora abbastanza scottato dalle delusioni, e l’incorreggibile ammirazione delle nostre platee per quelli che sanno improvvisare mille vorsi, tenendosi fermi sul piede sinistro: fretta moderna ed antica retorica, facinoroso entusiasmo di tutti quelli che pur di sberciare Abbasso l’Austria!, condurrebbero in malora il loro caro paese, ed innocente amor di chiassate non insolito alla giovinezza latina, tutti, insomma, gli elementi spuri dell’anima contemporanea contribuirono a rendere facile a F. T. Marinetti la vittoria ch’egli s’era proposta. Giacché Marinetti ha vinto la sua scommessa. Leggete in Poesia, gli articoli che sul futurismo hanno pubblicati i giornali francesi, inglesi, americani, tedeschi; leggete le statistiche, con cui Marinetti annunzia che più di quattrocento giornali si sono occupati del suo bel gesto alla prima rappresentazione de La donna è mobile. Forse e senza forse egli è l’italiano più conosciuto all’estero; senza alcun dubbio al mondo, vi sono molti stranieri che, in buonissima fede, credono di vedere in Marinetti il più autentico rappresentante della nuova coscienza letteraria italiana. Egli è riuscito a dimostrare che la letteratura può venir considerata come uno sport, e che con un buon allenamento si conquista anche un record di celebrità poetica. Quelli che gli fan codazzo sono gente d’indole, d’ingegno, di tendenze diversissimo. C’è Gian Pietro Lucini, uomo di mente fertile e bizzarra, degno di grande rispetto per l’ingegno malamente sviato, che prosegue, esagerandole, certe tradizioni di stramberia già antiche a Milano, se si pensa alla prosa di Carlo Dessi e a certi scherzi metrici di Arrigo Boito. Il suo ultimo volume s’intitola Revolverate, e si distingue per una copertina accecante, che sembra grondar sangue. C’è Enrico Cavacchioli, giovanissimo ed eccellente verseggiatore, che ha portato al futurismo un notevole contributo con un volume di Ranocchie turchine, preceduto da un furioso proclama, ove si annuncia la criminale intenzione di uccidere «il chiaro di luna». C’è Paolo Buzzi, impiegato al Comune di Milano ed avvocato, non incapace di graziose fantasie idilliche, e ciò non pertanto futurista anche lui ed autore di un volume che s’intitola Aeroplani. Perché Buzzi e Cavacchioli siano futuristi è difficile dire; ma il caposcuola è l’editore dei loro libri, ed essi accettano, forse senza riluttanza, il bollo della scuola. Ma ce n’è altri ancora: oltre i futuristi malinconici, ci sono i futuristi ameni. C’è, per esempio, Corrado Govoni, che ha scritto versi di questo calibro:
La luce stanca si volatilizza,
ne la camera per i vetri ermetici:
nei laghi degli armadi si erborizza
un bel giardino con dei muri erpetici.
E c’è anche Aldo Palazzeschi, che cosi parla alla sua cagnolina, nominata Diana:
Salisci mia Diana, salisci,
salisci codesto scalino,
salisci, non vedi è bassino,
bassino bassino, salisci.
Le male lingue dicono che la burla, se è davvero una burla, com’io fermamente credo, sarebbe troppo costosa. Ma Marinetti è un munifico signore o mostra un gran buon gusto, se proferisce divertirsi con una di quelle grandiose burle sociali di cui da parecchi secoli s’era perduta la consuetudine, anzi che con la solita automobile o col solito macao. Oltre di che, la burla è ricca di significato, essendo una vasta e geniale parodia letteraria, che dimostra anche agli increduli come il contenuto e le forma della letteratura italiana siano, dopo la meravigliosa fioritura degli ultimi decenni, in istato di dissolvimento. E potrà anche riuscire utile, come notava un mio ingegnoso amico, se varrà a far più scettici gl’italiani intorno al valore della celebrità ed a persuaderli che il valore di una produzione spirituale non si giudica dalla sua notorietà e dalla sua diffusione come un prodotto farmaceutico.
G. A. Borgese
«La Stampa», 8 marzo 1910