Sorrentino, Dragoncelli di fuoco e la gioventù ripensata

Ho fatto una sola tirata di sigaretta stanotte, anche se non fumo più, ed ho letto il libro di Stefano in un sol fiato, attardandomi di più sulla prefazione, commossa e verace come lui, del mio fraterno amico Bruno Grillo. Il libro è bellissimo. Sorrentino è una scusa, perché in fondo è proprio lui il grande assente. Il racconto si dipana, madido di sogni, come la generazione, quella mia, di cui racconta gli onanismi ideatici che ricolmano la giovinezza. La mia Napoli accennata fa da controfigura, più che da sfondo, ai virgulti della buona borghesia partenopea. Loro sono gli spezzoni di un film amatoriale che per la sua aggressività, tipica di ogni opera prima, forse è il miglior lungometraggio di Sorrentino, smisuratamente punito dalla vita, tanto quanto ingiustamente premiato, dopo, come cineasta. La colonna sonora non sono i Talking Heads preferiti da Paolo e da me sempre odiati, ma la speranza in un futuro compiuto che accompagna ogni ragazzo del sud del mondo. L’appellativo “Ardo” che i protagonisti si appioppano vicendevolmente come diminutivo di vegliardo, è forse di più ardimento o ardore, come quel fuoco acceso che scuote loro le viscere, più che il cuore, e li rende animali feroci sul palcoscenico della vita, fiere che stappano a morsi, rendendo con parole sapide i pensieri inutili.

Io anche ero lì, contingente, parallelo, tangente alle loro esistenze, stufo delle loro medesime angosce e pieno della identica volontà di riscatto dai dettami dell’ordinario. Ogni personaggio in questo libro è una maschera. Nel racconto c’è una distinzione in proposito. Ed ogni maschera raffigura il buono, il permaloso, il riflessivo, come in ogni commedia umana. È un umanista Loparco che dal particolare volge all’universale. Affezionato sinceramente ai suoi protagonisti, lui è il deuteragonista della tragedia incombente del signor vita. Semmai Dragoncelli di fuoco è diventato una storia compiuta, finita, onnicomprensiva, non è per la storiella superflua che racconta ma per la narrazione asciutta di un documentarista cartaceo che ha reso grazia all’infinito presente del verbo esserci. Non perdetevi le virgole di questo scritto, perché le incidentali valgono assai più delle principali che sono un accessorio linguistico necessario ma l’essenza indispensabile di ogni esistenza, Loparco lo sa, sta nei periodi ipotetici di cui il libro è pieno.

Michele Saviano

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