Sorrentino, Dragoncelli di fuoco e i ragazzi di via Caldieri, 66


Lettere all’autore

Divorato in pochissimo tempo, il libro di Stefano Loparco sulla realizzazione del primo mediometraggio di Paolo Sorrentino, lettura trascinante ed emozionante. Con scrittura brillante e ‘incendiaria’ ha saputo trasportarmi, come una macchina del tempo, in un’epoca che ricordo anch’io vividamente. Quel Centro Culturale Giovanile in via Caldieri 66 dove, a partire dal Settembre 1993, cominciai a trasformare la mia passione per il cinema in un qualcosa di più concreto e dove ebbi occasione di assistere alla prima di Dragoncelli, nel Novembre del’94. Dove conobbi Bruno Grillo, Stefano Russo (interpellati nel libro come amici e collaboratori di Paolo), amici con cui sono molto felice di essere ancora in contatto, con i quali collaborai all’epoca come montatore. Dove conobbi anche Paolo Sorrentino che usava chiamarmi affettuosamente “Il belloccio”, col quale ci frequentammo per un po’ (condividendo anche un appartamento a Venezia nel 1996 durante il festival) ma col quale sentivo di non riuscire a entrare davvero in comunicazione per via del carattere ombroso nonché corazzato in un’ironia che all’epoca trovavo respingente. Purtroppo per me in seguito ci perdemmo di vista.Il libro di Loparco mi ha scaraventato in quel tempo, sebbene si fermi proprio nel momento in cui conobbi Paolo. E’ stato strano, dolce e amaro leggere quelle pagine così ben orchestrate in un racconto biografico davvero avvincente che potrebbe costituire la perfetta lettura propedeutica alla visione de “La mano di Dio”, quando a Novembre uscirà nelle sale.Di aneddoti che sarebbero potuti finire nel libro ne ho qualcuno anch’io ma non li racconto certo qui, tranne uno. Avevo realizzato da poco il mio secondo cortometraggio “Arianna”, nel Settembre 1995, e Paolo venne a trovarmi apposta per vederlo. Dopo che aveva fatto a pezzi il mio precedente lavoro ero nervoso e mi trovavo anche in un periodo piuttosto depressivo. CI chiudemmo in camera mia e dopo i 18 minuti di “Arianna” (corto che sentivo più autentico rispetto al precedente e nel quale avevo riversato tante cose) Paolo mi sorrise e disse col suo fare ironico: “Meglio, decisamente meglio!”. Quel giorno mi sentii meglio anch’io.

Claudio Gargano

Dragonelli di fuoco è un affresco, un lavoro che denota impegno e passione. 

Maurizio Fiume

Caro Stefano,

al di là del piacere della lettura, per me c’è un coinvolgimento molto forte. Cioè sei riuscito a riportarmi con grande precisione in quegli anni, in quei luoghi, che per noi sono fondativi, per noi che adesso ne abbiamo fatto un lavoro, e credimi è così, non facciamo altro che pensare a quei tempi lì, più volte al giorno. Tempi per me che ero più piccolo (io e Paolo abbiamo iniziato a cazzeggiare insieme con corti e scritture di lunghi subito dopo Dragoncelli di fuoco e le cose che racconti nel libro) furono specialissimi, in quanto per me era un puro sogno quello che per Paolo si stava già configurando come qualcosa di reale. Sono molto contento di averlo letto. Una sensazione molto strana, non solo un tuffo nei ricordi, ma qualcosa di più complesso, con sfumature anche dolorose, confuse… ancora forse io stesso devo un po’ fare ordine rispetto a quel tempo. Bravo.

Gianluca Jodice

Ho fatto una sola tirata di sigaretta stanotte, anche se non fumo più, ed ho letto il libro di Stefano in un sol fiato, attardandomi di più sulla prefazione, commossa e verace come lui, del mio fraterno amico Bruno Grillo. Il libro è bellissimo. Sorrentino è una scusa, perché in fondo è proprio lui il grande assente. Il racconto si dipana, madido di sogni, come la generazione, quella mia, di cui racconta gli onanismi ideatici che ricolmano la giovinezza. La mia Napoli accennata fa da controfigura, più che da sfondo, ai virgulti della buona borghesia partenopea. Loro sono gli spezzoni di un film amatoriale che per la sua aggressività, tipica di ogni opera prima, forse è il miglior lungometraggio di Sorrentino, smisuratamente punito dalla vita, tanto quanto ingiustamente premiato, dopo, come cineasta. La colonna sonora non sono i Talking Heads preferiti da Paolo e da me sempre odiati, ma la speranza in un futuro compiuto che accompagna ogni ragazzo del sud del mondo. L’appellativo “Ardo” che i protagonisti si appioppano vicendevolmente come diminutivo di vegliardo, è forse di più ardimento o ardore, come quel fuoco acceso che scuote loro le viscere, più che il cuore, e li rende animali feroci sul palcoscenico della vita, fiere che stappano a morsi, rendendo con parole sapide i pensieri inutili.

Io anche ero lì, contingente, parallelo, tangente alle loro esistenze, stufo delle loro medesime angosce e pieno della identica volontà di riscatto dai dettami dell’ordinario. Ogni personaggio in questo libro è una maschera. Nel racconto c’è una distinzione in proposito. Ed ogni maschera raffigura il buono, il permaloso, il riflessivo, come in ogni commedia umana. È un umanista Loparco che dal particolare volge all’universale. Affezionato sinceramente ai suoi protagonisti, lui è il deuteragonista della tragedia incombente del signor vita. Semmai Dragoncelli di fuoco è diventato una storia compiuta, finita, onnicomprensiva, non è per la storiella superflua che racconta ma per la narrazione asciutta di un documentarista cartaceo che ha reso grazia all’infinito presente del verbo esserci. Non perdetevi le virgole di questo scritto, perché le incidentali valgono assai più delle principali che sono un accessorio linguistico necessario ma l’essenza indispensabile di ogni esistenza, Loparco lo sa, sta nei periodi ipotetici di cui il libro è pieno.

Michele Saviano

Loparco scrive benissimo. Ma c’è di più. Dragoncelli di fuoco ha ritmo, belle metafore visive e uno stile che rende la lettura interessante, anche al netto del mondo sorrentiniano. 

Stefano Russo

Un pensiero su “Sorrentino, Dragoncelli di fuoco e i ragazzi di via Caldieri, 66

Cosa ne pensi di questo articolo?