Edwige, così é se vi pare

Scrive Walter Veltroni: – «Non saremmo ciò che siamo senza Caravaggio o Stravinskij, senza Proust o Fellini, senza Gershwin o Brunelleschi. Senza di loro il paesaggio del mondo, la grammatica delle nostre emozioni, i percorsi della nostra fantasia sarebbero diversi. La consapevolezza di noi stessi sarebbe diversa». Altrettanto diversa sarebbe – mi pare –, se non avessimo potuto cogliere i frutti ‘minori’ di quella vasta produzione popolare che, in egual misura, ha saputo sedimentarsi entro la memoria collettiva del paese, contribuendo a plasmarne l’identità. Accanto ai luoghi istituzionali della cultura ’alta’ prosperano, infatti, altri archetipi, prodotto della (sub)cultura popolare, nati per il consumo e la diffusione ma che hanno saputo emanciparsi dalla dimensione funzionale entro cui sono stati concepiti. Sono oggetti straordinari e proprio per questo capaci, nel tempo, di abdicare alla naturale destinazione d’uso, per fare il loro ingresso in una dimensione altra, parallela a quella reale; è il mondo delle «forme universali», prodotto e patrimonio della memoria collettiva, popolato da una particolare classe di oggetti che vive e si nutre del linguaggio del simbolo e del mito e sui quali, ognuno di noi, mappa la geografia esistenziale, la propria «grammatica delle emozioni»: la Fiat 500, la moka Bialetti, la Linea di Osvaldo Cavandoli, ma anche la sigla del Carosello, la pipa di Pertini e l’urlo di Tardelli ai mondiali di calcio del 1982, sono solo alcune forme universali che hanno attraversato i decenni, mantenendo intatta la forza del loro mito. Così è stato per il corpo di Edwige Fenech.

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Bella di una bellezza inesplicabile e sogno proibito di intere generazioni d’italiani, Edwige è stata uno dei più potenti oggetti erotici che il mondo della celluloide abbia prodotto. Le ragioni mi pare possano essere qui semplicemente elencate: una fisicità debordante, una mimica fortemente allusiva e la consapevolezza di possedere un corpo erotico fecero di lei, almeno da Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda (1972), una delle icone della allora nascente commedia sexy dei primi anni Settanta. Poche inquadrature, come la ripresa al ralenti di lei giovanissima che corre seminuda nei prati, o la scena della visita medica in cui rimane a seno nudo davanti agli attoniti Renato Malavasi e Umberto D’Orsi, e in quel momento debutta in modo prepotente l’icona Edwige Fenech, sul cui corpo si confronteranno i pensieri inconfessabili d’intere generazioni di connazionali. Sarà ancora Veltroni, ventidue anni dopo, a rendere esplicito ciò che allora non poteva essere detto, scrivendo coraggiosamente «lei è una intensa Edwige Fenech che dà il volto a ‘Quel gran pezzo dell’Ubalda‘, un personaggio alla Truffault. I cinema furono affollati da un pubblico avido di emozioni minute, severo ma capace di cogliere la novità di costume rappresentata da quel film sincero e irriverente. Erano gli anni della svolta a destra, del governo Andreotti-Malagodi e dunque la mitica Ubalda ha anche aiutato a sconfiggere risorgenti integralismi bacchettoni e a dislocare verso equilibri più avanzati il comune senso del pudo-re» . E così l’Ubalda e le eroine che da lì in poi l’affiancheranno, hanno contribuito (non sole, ma certamente anche loro) a ridefinire i parametri di un nuovo senso del pudore, fornendo un punto d’attracco a quanti cominciarono allora il pruriginoso viaggio alla scoperta del ‘pianeta corpo’.

Gli anni che vanno da Top sensation (1969) a La moglie in vacanza… l’amante in città (1980), attraverso le funamboliche peripezie di apprendisti bombaroli in Grazie… nonna (1975), vedranno, infatti, schiere d’italiani in fila davanti ai botteghini dei cinema in cui è proiettato il nuovo film ‘con la Fenech’. E poco importa se lì si narrasse la storia di un’ingenua poliziotta, un’avvenente dottoressa o un austero pretore. Tutti erano lì per ammirare, con l’audacia e il candore delle trasgressioni infantili, quei pochi istanti in cui, caduto a terra il reggiseno, Edwige avrebbe mostrato le forme taumaturgiche di quel corpo meraviglioso. Tutto questo accadeva nella rassicurante penombra di un cinema; fuori, le cronache del tempo ci restituiscono l’immagine di un’altra Italia:

1969 – Strage di Piazza Fontana. A Milano, nei saloni della Banca Nazionale dell’Agricoltura, lo scoppio di una bomba provoca la morte di sedici persone e il ferimento di altre novanta;
1970 – Negli stabilimenti Sit-Siemens di Milano, compare un volantino con la stella a cinque punte e la sigla BR – Brigate Rosse;
1972 – Omicidio del commissario Luigi Calabresi, accusato dagli ambienti extraparlamentari dell’assassinio dell’anarchico Pinelli nelle primissime fasi dell’indagine sulla strage di piazza Fontana;
1974 – Strage di Brescia. Durante un comizio sindacale, una bomba neofascista provoca la morte di otto persone e il ferimento di oltre ottan-ta. Altre sette persone moriranno due mesi dopo nell’esplosione di una bomba sul treno Italicus;
1976 – Con l’assassinio del Procuratore Capo di Genova, Francesco Coco, e la sua scorta, si registrano le prime vittime del terrorismo rosso;
1978 – Mentre si sta recando alla Camera dei Deputati, dove si tiene la discussione che precede il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti, l’onorevole Aldo Moro è rapito dalle Brigate Rosse e la sua scorta ster-minata. Il corpo dello statista sarà ritrovato cinquantacinque giorni do-po, crivellato da una scarica di proiettili, all’interno di una Renault 4, nel cuore di Roma;
1980 – Strage di Bologna. Una bomba nascosta nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria esplode provocando ottantacinque morti e ol-tre duecento feriti: è la più impressionante strage mai avvenuta nell’Italia repubblicana.

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E così, in quegli anni così liberi e irriverenti in cui nascevano le prime radio libere e l’emittenza televisiva privata, la controcultura e i grandi raduni rock, negli stessi anni in cui parole quali «assemblea», «sciopero», «contestazione», «lotta di classe» (in un rapido e manchevole excursus crono-semantico), risuonavano lapidarie come cazzotti nella bocca dello stomaco, in quegli stessi anni in cui, nel nome di un agognato socialismo reale o di un supposto ritorno all’ordine, «ucciderne uno per educarne 100» e «uccidere un carabiniere non è reato», forze dell’ordine e magistrati, giornalisti e uomini politici, vengono indistintamente combattuti e abbattuti, sotto i colpi di una lotta armata a matrici rossonere, che ambisce a ridisegnare gli spazi della geografia politica a suon di morti ammazzati e slogan criminal-pedagoghi.

Questa l’immagine sbiadita che ci consegnano le cronache dell’epoca. Questa la faticosa marcia di costruzione di un’Italia che – oggi come allora –, stenta a ritrovare nuovi equilibri socio-politici nella frammentazione in cui il postmoderno l’ha costretta. Questi – oggi come allora –, gli interstizi su cui poggia mollemente il corpo di Edwige Fenech. Strada impervia quella che ci accingiamo a intraprendere dalle pagine di questo libro, irta di rischi personali («Il re è nudo!» – grida il bambino innocente alla folla obnubilata) e di metodo (grave errore confondere la passione con l’oggettività), ma con una tesi dichiarata: Edwige Fenech, l’icona nuda, è stata la prima maschera erotica del cinema italiano. Icona popolare – s’intende – come la Coca-Cola e la Fiat 500, prodotti a basso costo nati per la diffusione e il consumo, ma che assurgendo a simbolo, sono diventati parte dell’antropologia del Paese. «Ciò che rende straordinaria l’America» – scriveva Andy Warhol nei primi anni Sessanta – «è che è il primo paese ad aver fatto sì che i consumatori più ricchi comprino le stesse cose dei più poveri. Guardi la televisione bevendo una Coca-Cola e sai che anche il presidente beve la Cola, che la beve anche Liz Taylor, e pensi: anch’io bevo la Cola. La Coca-Cola è la Coca-Cola, e nessuna ricchezza al mondo può darti una Coca-Cola di qualità superiore a quella che beve il barbone all’angolo della strada. Tutte le Coche sono uguali e tutte le Coche sono buone. Liz Taylor lo sa, il presidente lo sa, il barbone lo sa e anche tu lo sai». Mutatis mutandis, la Coca-Cola sta agli americani come la Fenech agli italiani. Tutti ne hanno fruito indistintamente (i fruitori) dalla stessa prospettiva psicologica. Mutano le sociologie e con loro le descrizioni, gli accenti e la morale, non il culto dell’immagine che un’intera nazione ebbe per il suo corpo, cui ‘quel’ seno è l’elemento nevralgico.

b5693bcf9d13f46b2cad6047de2bfb29Reale oggetto della devozione popolare e fonte d’interrogativi fin sopra le cattedre di semiologia, pochi oggetti dell’iconografia profana sono stati immortalati quanto il seno di Edwige Fenech. Di lui pare si sappia tutto. Se in gioventù è florido e rotondo, dal 1973 al 1974, pur conservandone l’armonia e il tono, risulta meno procace a causa di un’eccessiva perdita di peso che ne ha impoverite le forme. Ma saranno le opere a cavallo del decennio a restituirne la florida bellezza, sfoggiato su un corpo cui la raggiunta maturità conferisce plasticità e pienezza. Pieno, di medio-grandi dimensioni e di una forma capace di esaltarne la straordinaria attrattiva erotica, per tutti gli anni Settanta l’enorme seno di Edwige poggerà idealmente sulle cimase di un Paese asfittico e dilaniato nelle sue faide interne, assurgendo a espressione maieutica di archetipi ancora sconosciuti: procace, generoso, invogliante ma anche rassicurante, conciliante, materno. Questi, soli alcuni epiteti con cui negli anni se ne tenterà una descrizione, sempre alla ricerca di una chiave di lettura che ne sveli l’attrattiva così prepotente. Ma la natura crea ma non spiega, e Edwige custodirà inviolato il mistero, versando il suo nettare nella coppa del mito.

Maschera popolare e icona nuda, corpo erotico e fenomeno di costume, dunque; questo è stato, almeno dall’Ubalda in poi, il fenomeno Fenech cui mancò, ai fini di una più compiuta storicizzazione, quel processo di decontestualizzazione che sulle orme del pensiero concettuale delle grandi avanguardie, raccoglie l’oggetto popolare mutandone destinazione e prospettiva. La Fenech non ebbe, come Totò, il suo Pasolini. In molti lavorarono al ‘prodotto’, nessuno riuscì a coglierne la forza del ‘segno’. Edwige Fenech rimase maschera finemente lavorata, in attesa del grande demiurgo che, però, non arriverà mai.

fenech01Per non indulgere in facili giustificazionismi potremmo rimproverare all’attrice, semmai, un certo immobilismo che l’ha resa ‘schiava delle sue tette’ (sì, anche lei!), complice di un’industria cinematografica refrattaria al rischio, che in lei vedeva la garanzia di riuscita ai botteghini. Di necessità virtù: privata della possibilità di evolvere artisticamente e affinati con l’esperienza gli stilemi del suo personaggio, l’attrice rinnova di pellicola in pellicola la mise en scene della maschera che l’ha resa celebre, quella di Edwige Fenech, la regina delle docce, l‘esuberante e trasgressiva bomba erotica sulle cui curve esplosive si getteranno, per oltre un decennio, i protagonisti della commedia sexy. Viola, Ubalda, Giovanna e le altre della nomenclatura scollacciata, in fondo, sono un espediente adottato da produttori, sceneggiatori e registi per darle la possibilità d’innescare quel prepotente côtè erotico che le era così connaturato e che farà dire a Giovanni Buttafava, «[Edwige] è l’unica fra le bellone plastificate tipo Rizzoli, Russo, Miti, che dia l’impressione di porgere il proprio corpo al desiderio delle platee con torpore ironico e sornione, con una grazia quasi paesana», e a un divertito Paolo Mereghetti, a proposito di Taxi Girl, «la Fenech è di una bellezza solare» e ancora, «come cantore del corpo della Fenech (mai così spogliata)» – riferendosi a Lucio Fulci che l’ha diretta ne La Pretora – «meriterebbe tre stellette». La Fenech, dunque, che interpreta Edwige Fenech, in una sorta di esercizio di metacinema alla Novelle Vague. E com’è stato prima di lei per altre maschere popolari quali Totò, Paolo Villaggio, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, la Fenech, con la prepotenza del suo corpo, assurge nell’immaginario a icona nuda, attraversando a colpi di tette quindici anni di storia del cinema di serie B (Z?), e consegnando alla cultura popolare del paese la prima maschera erotica della celluloide. Ma se Totò ha utilmente sfruttato la plasticità di un corpo smilzo e sgraziato, svirgolato da un mento ritorto che lo rendeva naturalmente buffo, se Paolo Villaggio ha reso celebre il pusillanime ragionier Fantozzi personificandolo in un corpo pingue, sul cui capo si abbatteva la consueta coppola a evidenziarne i più reconditi stati emotivi, così Edwige Fenech, sempre in funzione del proprio corpo, ha creato la propria maschera semplicemente esibendolo. E non poteva essere altrimenti; lei entrava in scena ‘costretta’ da sceneggiature indescrivibili per rozzezza, volgarità e trivialità d’ogni sorta, si spogliava e lì, nuda, prendeva forma la maschera sexy di un’Italia ridanciana e sguaiata, che in lei salutava la diva più plausibile dell’erotismo tricolore.

163707_10150337035605411_238113_nMa si sa, le cose cambiano in fretta e nulla è più inebriante delle prospettive che il new deal porta con sé. Al giro di boa degli anni Ottanta, la grande carovana della commedia sexy (e più in generale del cinema di genere) si ferma. Il pubblico, ormai ‘adulto’, non gradisce più. La nascita dell’emittenza privata ha, di fatto, svuotato le sale cinematografiche, consegnandole allo strapotere dell’industria americana. Sorretto da analisi di marketing da economia di scala e battage pubblicitari inimmaginabili per le produzioni nostrane, con la fine degli anni Settanta, il ci-nema a stelle e strisce intercetta i favori del grande pubblico, decretando la lunga agonia del cinema italiano, «come se il pubblico dei giovani avesse sviluppato fenomeni di rigetto o il cinema americano e la televisione producessero anticorpi nei confronti di qualsiasi prodotto di casa» . Stante così le cose, l’intero caravanserraglio della commedia scollacciata se la dà a gambe levate, chi risucchiato dentro le fauci del tubo catodico, chi costretto a ripiegare nei teatri di provincia e chi – avesse seguito i consigli paterni – riparato ad altri e più modesti impieghi. Edwige Fenech, fuggita anche lei, scompare liberandosi definitivamente della sua maschera erotica; gettata con disprezzo nel baule di scena assieme ai cappellini della Giovannona e le parrucche dell’Ubalda, quella stessa notte, Edwige, con un colpo di reni, salta la finestra del camerino, traversa i campi e scompare liberandosi per sempre di un’immagine che, in fondo, non le è mai appartenuta.

Il Corpo dei Settanta – booktrailer

Un quarto di secolo dopo, della regina delle docce nessuno sembra più custodirne il ricordo. L’icona nuda e la sua maschera erotica paiono giacere in un limbo, sepolte nei meandri della memoria collettiva, senza apparente certificato di morte. Il sistema dei media, cresciuto nel frattempo negli alvei della finanza internazionale e delle borse telematiche, con il tacito accordo dell‘attrice ‘transfuga’, ha rigettato ogni rievocazione pubblica, relegandone il nome alle nuove prospettive cui la signora Fenech si darà da lì in poi. Ma come spesso accade nelle miserevoli ipocrisie del vivere quotidiano, la notte, fuori dagli occhi indiscreti di una moralità che ne condizionerebbe i comportamenti, lì, prende vita un’altra Italia. Milioni di connazionali, nell’impenetrabile oscurità delle pareti domestiche, al motto di «vai pure a letto, cara… non ho sonno…», rimangono sintonizzati davanti al televisore per ammirare le dolci e procaci forme dell’icona nuda, con lo stupore e la meraviglia di sempre, in un atto di riconciliazione collettiva in cui s’invoca il mea culpa («Oh, Edwige… scusaci…»). E così, davanti agli occhi concupiscenti del Giuda mediatico, scorrono le immagini di quel piccolo mondo antico, così negletto, rozzo e triviale ma che, diamine!, sapeva ancora essere grato alla sua sovrana. Com’è stato per la politica, anche Edwige sembra vittima del tanto vituperato «riflusso nel privato». Di Edwige – ci testimoniano i dati di ascolto del Giuda mediatico – c’è n’è ancora bisogno, ma se ne fruisce in solitudine, fuori da uno spazio pubblico che ne ha immunizzata la memoria, ammissione abominiosa di sguaiate pulsioni erotiche che puzzano di strapaese, fiaschetti di vino e sagre paesane. L’opinione pubblica che vive e lavora alle guardinghe luci del giorno, l’ha segregata negli archivi impersonali dell’ufficio anagrafe capitolino, il cui nome, Fenech Edwige, è buono per carte d’identità ed estratti di nascita. L’attrice stessa, oggi noto produttore cinematografico, costretta a ricordare i suoi trascorsi cinematografici, prima li rinnega radicalmente , poi forse ammansita dal potere lenitivo del tempo, si riconcilia con essi facendo, però, opera di ricostruzione psico-semantica, e traslatandoli in un mondo immaginifico popolato da folletti e fatine in cui «si rideva molto… non c’era assolutamente niente di morboso» – e ancora – «abbiamo rotto gli argini del puritanesimo, senza fare scandalo, con molta spontaneità nel raccontare…» .

La cosa è antica. Spesso chi fa la storia, non la sa raccontare. Spesso i protagonisti di un’epoca sono troppo indaffarati nel risolvere le inevitabili tensioni che l’azione produce, soprattutto se (e questo è il caso) è un’azione che ha precise implicazioni con la morale sessuale, i costumi e i tabù di un paese. In realtà Edwige fu ben altro. Fu la possibilità di godere della bellezza e gioire della vita; provare quel fremito che corre giù lungo la schiena e che ti fa sentire felice di stare al mondo. Ignobilmente felice. Edwige fu tutto questo e altro ancora. Fu una promessa di redenzione a quanti, nei fragori della protesta, rischieranno di schiantarsi. In anni così tumultuosi e vulnerabili in cui, sulla gioiosa anarchia del vivere quotidiano, si abbatteva una violenza miope e suicida, pochissimi spararono, quasi tutti tirarono la carretta, i più affollarono i cinema alla ricerca del suo corpo nudo. Prima che la storia inciampi sulle barricate del Sessantotto e la rabbia si sciolga in una criminale violenza politica, prima che il male di vivere recida le foglie morte di chi non ce la fa più, prima che l’Occidente abdichi alla vita, Edwige era sempre lì, sullo schermo di un cinema a rassicurare tra le sue tette, quell’inquieta umanità che per oltre un decennio le sfilerà davanti leccandosi le ferite. E anche così è stato possibile ritrovare un po’ di quella felicità così necessaria alla vita. Come ben sa chi vive.

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Copyright © Stefano Loparco. Tutti i  diritti riservati. Tratto dal libro Il Corpo dei Settanta – Il Corpo, l’immagine e la maschera di Edwige Fenech (Ed. Il Foglio)

 

Robin Williams (1951 – 2014). Il comico, la sua ombra

Robin Williams

Capita nella vita, e a me accade più spesso sullo schermo, di essere bravi insegnanti, ma di non saper scegliere per se stessi la strada giusta (…). Per un comico, poi, quando ridere non ha più un effetto catartico, specie nel mondo di oggi, tutto diventa difficile. Sì, avevo acquistato un ranch e iniziato pochi anni fa a produrre vino. Credevo di dominare la situazione e speravo che anche questa attività mi avrebbe aiutato a sconfiggere ogni demone, ma non è stato così.

Robin Williams

Corriere della Sera, 2006

Graffi sul mondo – una storia vera

gggg.BA6456 $_57gg600full-belinda-lee7 maggio 1961. L’arrivo a Ciampino del giornalista e regista Gualtiero Jacopetti – nella foto a sinistra con il padre Francesco -, un mese dopo l’incidente in cui ha perso la vita la compagna, l’attrice inglese Belinda Lee.
14 dicembre 1961. E’ il giorno del funerale italiano di Belinda, il secondo dopo quello di Los Angeles.
Sotto, un intenso ritratto di Belinda Lee.

Lettera aperta. Riz Ortolani, Katyna (e io)

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Cara signora Katyna,

altri, e meglio di me, diranno chi è stato Riz Ortolani, quale il suo lascito artistico, i tanti meriti. Ora a me appare tutto inutile, insensato. La verità è che non riesco a immaginarla senza suo marito. «Riz e io siamo una persona sola!» – mi disse un giorno, osservando con aria complice il suo compagno di una vita. Lui le sedeva accanto nella sua naturale compostezza, sguardo penetrante, la parola sorvegliata.

Si ricorderà quel pomeriggio di fine estate del 2013. Ero giunto a Roma – ospite nella vostra villa – per parlare col maestro. Stavo terminando la stesura di Graffi sul Mondo – Gualtiero Jacopetti e avevo deciso di dedicare un capitolo a More – fortunata colonna sonora del film Mondo cane (1962) ad opera di Riz Ortolani e Nino Oliviero. Un brano che aveva dato molto a suo marito: successo e fama. E dispiaceri, sotto forma di una lunga querelle giudiziaria che per quasi un decennio lo ha contrapposto a Oliviero. Una causa per l’attribuzione di paternità della composizione che fece scalpore all’epoca,  certamente una tra le più importanti del nostro paese. E forse anch’io, quel giorno, gli ho procurato un dispiacere. Io che mi ero incaricato di insistere su quella domanda birichina: «chi ha composto veramente More? Lei o Oliviero»? Inutile, e forse inopportuno, rievocare qui la sua articolata risposta.

Di quel giorno, ricordo la grande passione di suo marito. Non ha eluso la domanda che certamente lo indisponeva – sapeva che ero lì per quello – ma ha risposto con piglio battagliero, snocciolando date, nomi, avvenimenti coadiuvato da un quaderno d’epoca – scritto di suo pugno – in cui aveva annotato diligentemente tutte le realizzazioni precedenti a Mondo cane. Le collaborazioni con Anton Giulio Majano, Armando Trovajoli; gli sceneggiati (in Italia e in Messico), l’esperienza nell’orchestra della Rai. E poi le giornate in moviola, assieme a Jacopetti, Prosperi e Cavara, con un block notes, a ‘prendere’ i tempi di Mondo cane. Sempre preciso, sempre rigoroso, nel ricordo. Di tanto in tanto era lei, signora Katyna, a proseguire il racconto, aggiungendo un particolare, un aneddoto. Suo marito smetteva di parlare. Poi riprendeva ed era lei allora a tacere. Si capiva che tra di voi c’era un’intesa non ipocrita; un amore sincero che durava da oltre mezzo secolo.

Nei mesi successivi a quel primo incontro, lei ed io abbiamo mantenuto viva la relazione: lunghe telefonate, un fiume di mail. «Stefano, lei ha una voce deliziosa» – mi diceva. «Signora Katyna, il suo entusiasmo è contagioso» – le rispondevo. Lei s’interessava al mio lavoro. Ci teneva che il capitolo su More – che già aveva apprezzato in una prima bozza – mantenesse viva l’obiettività. Ad ogni nuova stesura, corrispondeva un suo suggerimento, una precisazione, un nuovo aneddoto che io, di volta in volta, integravo. Così sono trascorsi i mesi: settembre, ottobre, novembre e dicembre. Molte telefonate, tante mail. L’ennesima stesura. Con gennaio il rapporto si è improvvisamente interrotto. Le mie mail non hanno trovato più risposta. La informavo che il mio libro era terminato, che avevo fatto del mio meglio. In fondo era stata lei a chiedermelo («Stefano, bisogna pretendere il massimo da sé stessi. Può scrivere ancora meglio…. su, su, a lavoro!» – mi diceva divertita quando, più di una volta, sono stato sul punto di mollare). Ma nulla. Nessuna risposta.

Oggi, la notizia.

Altri, e meglio di me, diranno chi è stato Riz Ortolani. Io, invece, mi fermo qui. L’abbraccio con una tenerezza infinita. Sia forte, cara Katyna. «Riz e io siamo una persona sola». Con oggi, per sempre.

Stefano

Il mondo di Riz Ortolani

Il nulla che va raccontato: La grande bellezza

L’apparato umano di Jep Gambardella. Romanzo di formazione di un giovane in estatica contemplazione della sua eclissi amorosa, quando gli elementi del creato convergono allo Zenit, quando tutto è come appare: una notte stellata, il mare silente, le onde che s’infrangono sui faraglioni e al centro della scena, lei, bellezza acerba che la parola inciampa. «Adesso voglio farti vedere una cosa…. » – dice all’innamorato cominciando a spogliarsi. Jep è paralizzato («Io non mi muovevo. Non avrei potuto muovermi»). Davanti a quei piccoli seni, il momento preciso che separa il vivere dall’aver vissuto, la vertigine dall’abisso, una nuova teoria della conoscenza e del sé.

E’ la sequenza finale de La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, l’explanandum di una pellicola che per oltre due ore mette in scena il cupio dissolvi di un’umanità lacerata sullo sfondo di una Roma magniloquente e metafisica, una cornice intarsiata in foglia d’oro al cui centro brulicano vite senza direzione e senso, come goccioline raggrumate sulla tela di un Pollock: intellettuali e starlette, aristocratiche e spogliarelliste, perdigiorno e alti prelati, un’intera sociologia ritratta nel suo agitarsi compulsivo che ritrova la sua ragione d’essere nel rito carnevalesco del ‘trenino’.

E Jep? Cosa ne è stato dell’ultimo Gambardella? Non è meglio degli altri. Cinico e disincantato, sopravvive al vuoto interiore al prezzo di un’amara ironia, ultimo baluardo al male di vivere. Un’esistenza al risparmio, la sua, sempre al centro della scena, mai della vita: è benestante e annoiato, intelligente ma scostante (L’apparato umano, vincitore del premio Bancarella, è il suo unico libro), non invidia, non è invidiato. Per vivere fa il giornalista, così. Piacente, raffinato, sensibile, Jep trascorre le giornate immerso nella mondanità ma nel buio sociale lo si vede riconquistare il silenzio, andandosene per le vie di una Roma deserta, segno di un fondo misantropico forse dimenticato. Jep è un sopravvissuto. E sa di esserlo. Orfano di quei seni ma ancora vincolato a quel patto di bellezza mai disciolto, si è immolato sull’altare dei mediocri («Io sono stato deludente»). Non ha perso, né vinto. Si è ritirato. Nulla è possibile se la meta è irraggiungibile. Così la bellezza non vivifica il mondo sociale – lascia intendere la pellicola di Sorrentino –, sopravvive nei fasti architettonici di una Caput mundi che nessuno dei protagonisti de La grande bellezza sembra apprezzare.

Già, i protagonisti. Una galleria di nuovi mostri del III millennio, oltre il pudore e la vergogna. ‘Cafonal’ alla Mutande pazze (1992) cresciuti in quel cono d’ombra, reale e illusorio, che va da Andy Warhol a Roberto D’Agostino. Votati al culto della bellezza (chirurgica) e al divertissement, invece sopraffatti dall’horror vacui, sempre bisognosi di un ‘rinforzo’, una spalla amica, una parola buona. Che non c’è. E’ il caso di Jep che durante una festa s’incarica di demolire l’auto rappresentazione dell’amica, sedicente donna di specchiata moralità e madre affettuosa, come fin lì si era professata («Stefa’, madre e donna, hai una vita devastata come tutti noi. Allora invece di farci la morale, di guardarci con antipatia, dovresti guardarci con affetto. Siamo tutti sull’orlo della disperazione. Non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un po’ in giro. O no?»). La donna si trincera in un silenzio carico di vergogna. Reputazione compromessa? Amicizia troncata? Niente affatto. Jep e Stefania continueranno a frequentare la stessa combriccola ‘fin che trenino non li separi’. Nulla si crea e nulla si distrugge al tempo de La grande bellezza. Le biografie non creano valore, densità etica. Contano le rappresentazioni del sé e anche quella di Jep è solo una maschera, più incline all’intrattenimento – è pur sempre un istrione – che all’invettiva morale. Manca ne La grande bellezza la drammaturgia che permea l’opera di Antonioni. Con Sorrentino si oltrepassa la dimensione del tragico per librarsi nel più compiuto non-sense. I protagonisti soffrono non la mancanza di legami significativi – non è l’incomunicabilità la natura del male – ma l’implosione del senso quale precondizione dell’identità. Ed eccoli i protagonisti di questo paesaggio ‘insensato’: Dadina la nana (Giovanna Vignola), caporedattrice del giornale su cui scrive Gambardella, Romano (Carlo Verdone), sceneggiatore teatrale romantico e idealista, Stefania (Galatea Ranzi), l’amica radical-chic, Viola (Pamela Villoresi), vedova facoltosa e madre di un ragazzo schizofrenico, Orietta (Isabella Ferrari), la fiamma destinata presto a spegnersi, Lello (Carlo Buccirosso), industriale dongiovanni fintamente innamorato della moglie Trumeau (Iaia Forte), paciosa e dedita al pettegolezzo e Ramona (un’intensa Sabrina Ferilli), spogliarellista avanti con gli anni dallo sguardo arreso ma sincero.

Ma allora, di cosa parla La grande bellezza? Del nulla o di nulla che apparentemente meriti d’essere raccontato: si chiacchiera, si canta, si balla, si fa sesso: si sopravvive. Fino al giorno dopo, giorno in cui si chiacchiererà, si canterà, si ballerà, si farà sesso. Qualcuno morirà.

Tutto qui? Si. E’ poco, si dirà, e qualcuno, infatti, lo ha detto. E a ragione. Sulla scia del capolavoro felliniano La dolce vita (1960), Sorrentino indaga un fenomeno – la mancanza di senso in seno alla contemporaneità – frequentato da artisti e intellettuali dall’alba del Novecento, e lo fa – considerati i limiti di un’opera d’intrattenimento – limitandosi alla rappresentazione. Ma è sul piano eminentemente cinematografico che l’opera di Sorrentino convince. La costruzione delle inquadrature, i movimenti di macchina, la consistenza interpretativa, fanno di La grande bellezza un caso a sé nella produzione autoctona degli ultimi venti anni. Una pellicola che abbandona i cliché della commedia all’italiana, rifugge gli stereotipi vetero-realisti di certo cinema giovanilistico e affonda in una tradizione – quella della commedia umana fondata da Sorrentino – che è già scuola. Un cinema che accetta la complessità amalgamando piani di lettura e concatenazioni di sequenze, senza perdersi nei dettagli ma esaltandoli; un cinema formalmente inespugnabile fatto di campi lunghi, carrelli, piani sequenza e primi piani, virtuosamente alternati in una sincope dal lascito ipnotico. Come ipnotico è l’incipit della pellicola girato sul colle del Gianicolo, a Roma. Dal colpo del cannone salutato dai rintocchi di campane alla rapida carrellata di volti e monumenti (‘Roma o morte’ – è la sinistra profezia iscritta alla base del busto di Garibaldi), l’interpolazione tra la visione multioculare di un coro dentro la Fontana dell’Acqua Paola – che esegue la straniante I Lie di David Lang – e la morte di un turista sopraffatto dall’abbacinante bellezza del panorama capitolino, fino alla chiusa che ‘affonda’ nelle acque della fontana per poi abbracciare, in una visione d’insieme, la terrazza del Gianicolo; a terra il corpo senza vita del turista, sullo sfondo i rilievi capitolini bruciati dal sole mentre in aria risuonano le voci dolenti del coro. Anche così potrebbe bastare: il talento di Sorrentino è soverchiante.

Ma servirà indagare la costruzione formale dell’opera – quella rigorosa geometria fatta di spazi pieni e vuoti, punti prospettici e vie di fuga, luci e ombre – per raccontare La grande bellezza? No. La pellicola di Sorrentino trascende la tecnicalità per regalare allo spettatore – nel vagare senza meta di Jep – alcuni momenti di grande fascinazione: i profili dei monumenti sottratti al buio, il bacio appassionato dei giovani innamorati, l’andirivieni divertito delle religiose, lo sguardo assente della starlette a bordo di una Limousine, fino all’incontro casuale – carico di stupore infantile e rassegnazione – di Jep con Fanny Ardant, icona di un tempo perduto.

Alla percezione della propria finitezza e lo spettro della morte – sarà un’umile suora, ‘la santa’, a dare una plausibile risposta al bisogno di sacro che via via sembra affiorare nella vita del giornalista –, Jep contrappone illusoriamente il suo vuoto armamentario fatto di feste e ‘trenini’ che ‘non vanno da nessuna parte’. E non potrebbe essere altrimenti. Jep è rimasto sempre lì, in quel luogo della memoria in cui si è cristallizzata l’immagine suprema dell’amore giovanile: «Su un isola, d’estate. Io avevo diciotto anni, lei venti. Al faro di notte. Io mi avvicinai per baciarla, lei si girò dall’altra parte. Rimasi deluso. Poi lei tornò a guardarmi. Mi sfiorò le labbra. Aveva l’odore dei fiori. Io non mi muovevo. Non avrei potuto muovermi. Poi lei fece un passo indietro e mi disse… fece un passo indietro e mi disse: ‘adesso voglio farti vedere una cosa…‘».

Ecco il momento preciso che separa il vivere dall’aver vissuto, la vertigine dall’abisso, una nuova teoria della conoscenza e del sé. Senza bellezza ogni promessa di felicità è disattesa. E al crepuscolo della vita, Jep trova la forza di spezzare il disincanto. E il suo nuovo romanzo può finalmente avere inizio: «E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla, bla, bla, bla…».